CAPITOLO 4

 

 

Memorie e segreti

 

 

 

 

Ora voglio dolcemente addormentarmi e alla soglia della terza età rivivere  come in un sogno gli incantesimi dell’infanzia , gli entusiasmi dell’adolescenza e il disincanto della maturità ,  rincorrendo  volti cari di congiunti ormai scomparsi, antichi  maestri di vita e vecchi compagni di scuola , cercando di fermare sulla carta tutto quel che vorrà consentirmi la memoria.

 Non pretendo di  esaminare fatti e situazioni nel loro svolgimento temporale , ci proverò ma senza  troppa convinzione  , preferisco raccontarli così come si accavalleranno nel disordinato parapiglia della mia testa.

Spero che a nessuno venga in mente di svegliarmi proprio adesso.

Quel che avvenne prima della mia nascita lo so per sentito dire, flashback  di quanto camminavo a quattro zampe non ne ho, i primi evanescenti ricordi cominciano quando dovevo avere quattro o cinque anni,  probabilmente si tratta di momenti dejà vu   nascosti  nei polverosi cassetti della memoria   assistita  in questa difficile ricostruzione  da un pizzico di fantasia, sbiaditi filmati in bianco e nero che scorrono sopra un tapis roulant d’emozioni e scaturiscono da aneddoti, testimonianze e vecchie foto.

Proviamo ad intraprendere insieme questo avvincente viaggio tra cronaca e nostalgia.

E’ l’alba dei favolosi anni sessanta,  comincio a mettere a fuoco, grazie al primo raccapricciante paio d’occhiali, gli oggetti e i mobili della casa, a calcolare grosso modo le distanze e ad indovinare, senza correre più troppi rischi, le luci delle porte che separano la mia stanzetta dalle altre .

Alle 9,07 del 12 aprile 1961 sono ormai un soldo di cacio  che parla decentemente un italiano appena velato da qualche  inflessione dialettale e cammina speditamente, finalmente  in posizione eretta,  lungo i corridoi di piazza Gondar . Con gli occhietti incerti, strofinando il nasino gocciolante, scruto dal basso  il grande appartamento per orientarmi tra  i corridoi e i vani  di quella che sarà per me la residenza per i prossimi vent’anni .  

L’ampio ingresso divide la zona giorno da quella notte, di fronte, chiuso a chiave,  il grande salotto con quei comodi divani a fiori dove non si può entrare,  pena il taglio della testa,  da cui si può accedere tramite una seconda porta  allo studio di papà . Voltando a sinistra si prende il corridoio che costeggia,  da un lato il tinello e il piccolo gabinetto di servizio per poi sfociare in cucina, dall’altro la seconda porta , anche questa sempre chiusa, della sala da pranzo. Dirigendomi verso sinistra un altro corridoio, questa volta più lungo,  porta nella mia cameretta lasciandosi sulla destra la camera da letto dei miei genitori e sulla sinistra il ripostiglio dove mamma ripone valigie e detersivi . Più avanti incontro la porta principale dello studio , anche qui vige il divieto d’accesso, proseguo verso  destra , rasento il bagno padronale e chiudo  la mia esplorazione di fronte alla porta della camera dei fratelli più grandi. E’ aperta. Fico! Quanti poster|! Quanti fumetti! Quanti libri! Quasi quasi entro e faccio un macello tanto Paolo e Piero sono ancora a  scuola.

A quell’ora – quale ? l’ho appena scritto! Non siete stati abbastanza attenti. Le 9,07 - il primo uomo mette piede nello spazio ,è il cosmonauta sovietico Yuri Gagarin, diventerà il primo idolo della mia infanzia , consequenziale sarà la sfrenata passione per astronavi, galassie e omini verdi.

La domenica mattina può ancora capitare qualcosa che oggi apparirebbe quasi inconcepibile.    Ti alzi tardi e cerchi con i piedini le pantofole che dovrebbero trovarsi ai piedi del lettino , dalla cucina arrivano gli aromi delle pietanze che cuociono sui fornelli, dal bagno il rumore  sordo dell’acqua calda  che sta riempiendo la vasca  per sgrassare i gemellini.  Ad un tratto  ti sembra di avvertire lo stridulo e disperato  coccodè di una gallina provenire dal tinello e attraversare il largo ingresso. Viene verso di te.  Inforchi i pesanti occhialini di tartaruga e cerchi di mettere a fuoco. Eccola lì! Nel corridoio! Dietro il grasso pennuto , che  invano cerca di sottrarsi al suo triste destino, arranca trafelata  mia madre . E’ animata da un insolito fuoco sacro, insegue  il pranzo con un’ affilata mezzaluna e,  tra urla e schiamazzi, intima  alla vittima designata di fermarsi per essere fatta a pezzi quasi pretendesse una resa senza condizioni. Sembra di assistere ad un’antica  danza tribale.    Mi addosso alla porta del cesso per non intralciarle la corsa , il vetro smerigliato è  appannato dai vapori,  la scena è divertente ,  il carnefice è ormai a ridosso del disgraziato volatile e brandisce minaccioso il machete,  ma non c’ è da preoccuparsi,  so già  che quando riuscirà ad acchiapparlo non avrà il coraggio di tirarle il collo, dovrà occuparsene come al solito , se come spero verrà a pranzo con zio Gino , la coraggiosa e implacabile zia Maria. 

La voce calda di papa Giovanni arriva rassicurante alle orecchie del suo gregge raccolto in piazza San Pietro o raggiunge attraverso la radio il resto dei fedeli appartato nell’intimità del soggiorno arrampicato ai piani alti degli enormi caseggiati appena innalzati   nelle popolose periferie romane.

Il suo volto affabile appare sugli oltre due milioni di televisori ormai presenti nelle case e spiazza,  con  parole piene di dolcezza e una risoluta apertura verso i problemi contemporanei,  laici, religiosi, politici e persino i medievali preti picchiapetti che dicono messa nelle piccola chiesa temporaneamente allocata in un garage ai confini di viale Somalia.

Il parquet di fronte al televisore è ancora zona a sosta limitata, la fermata a lattanti come me è consentita soltanto il pomeriggio per la TV dei ragazzi, imperversa l’era dei mutandoni .

 Nel nuovo varietà del sabato sera, Studio Uno, le gemelle Kessler, subito censurate, esibiscono gambe mozzafiato in body e calzamaglia,è il massimo del softcore consentito ma basta a solleticare i miei  teneri ormoni in fase di irrefrenabile espansione.

Sui campi di calcio imperversa l’epopea delle milanesi di Helenio Herrera e Nereo Rocco, degli scudetti incrociati di nerazzurri e rossoneri e dei mitici incontri di Coppa dei Campioni , una febbre che inesorabile colpirà anche me:  diventerò interista, una breve e cocente infatuazione, ne parleremo.

Nella rassicurante penombra della piccola cucina affacciata sul cortile la radio è sempre accesa , l’altoparlante trasmette   la diabolica risata del Gambero, temuto ospite fisso dell’omonima trasmissione radiofonica condotta da Enzo Tortora ,  o la voce popolare e stridula del mitico Orazio Pennacchioni impertinente ragazzino dalla lingua biforcuta tifoso contemporaneamente di Roma e Lazio.

Sulla mensola di formica Susanna e la Mucca Carolina , sui fornelli il sugo per  gli spaghetti che cuoce lentamente diffondendo per la casa uno stuzzicante odore di soffritto, insopprimibile sale il desiderio, immediata si leva la supplica: “Mamma mi prepari pane e sugo ?”. Cosa c’è di meglio che assaporare al mattino una bella rosetta intinta in una gustosa salsa di pomodoro fumante?

Devo togliermi dai piedi, Fernandella deve fare le pulizie prima di uscire con i gemelli a fare la spesa ,i bambini in età scolare sono raddoppiati rispetto a dieci anni prima ma io non ho ancora l’età giusta per emularli   , non mi resta che traslocare con soldatini e autoblindo nella mia cameretta,  estrarre il tavolino celeste agganciato alla parete , accostare lo sgabello ed attaccare furente le postazioni nemiche.

Non vedo l’ora che  mamma mi porti con sé sul terrazzo condominiale, mentre lei stenderà i panni sulla  lunga corda tesa tra le due opposte estremità del ballatoio io apprezzerò il buon profumo  di bucato appena steso che il ponentino diffonderà tutt’intorno.

Tenterò di sollevarmi sulle punte appoggiando le manine al parapetto per  osservare dall’alto del palazzo le miniature dei passanti e delle automobili che affollano piazza Gondar e dintorni , poi correrò lungo  la lunga teoria di antenne affastellate sulle spallette e mi porterò sull’altro versante per sbirciare, oltre il ponte delle valli, il fiume Aniene che costeggia la ferrovia e le baracche dei poveri ammassate sul greto del fiume .

 Non ti sporgere!” Mi urlerà come al solito la mamma cercando di non farsi cadere la molletta sistemata al lato della bocca, braccia tese a sistemare  lenzuola capricciose che si agitano ad ogni alito di vento.

E chi ci arriva?” considererò sconsolato seguendo la linea dell’orizzonte .

Oltre il parapetto di destra s’intravede il contado dello spaventoso fosso di Sant’Agnese, covo di zingari, delinquenti e ladri di bambini , mi è stato detto di non avvicinarmi mai a quelle catapecchie se non voglio sparire nel nulla.

E’ tardi. Dal cortile sale un familiare odore di cavolo , i fratelli stanno per tornare,  è ora di tornare a casa ed apparecchiare la tavola per il pranzo .

 La porto io!” grido  a mia madre strappandole dalle mani la bacinella  vuota , basteranno un paio d’ore con questo sole così caldo,    poi torneremo  in terrazzo a ritirare  il bucato  asciutto ed io e mia sorella ci divertiremo un mondo  a nasconderci sotto le lenzuola  distese  all’ingresso che  mamma tenterà di piegare con l’aiuto di uno dei fratelli più grandi. 

Nel tardo pomeriggio è prevista la visita dal pediatra, il puntiglioso e zelante Dott. Roberto Canganella, nel suo studio , al terzo piano di un elegante palazzo di via Nizza a due passi alla Rinascente, il suo occhio attento esaminerà al di sotto di quella sua testona calva ogni punto , anche il più recondito,  del mio tenero corpicino .

Sarà spietato , mi farà ingoiare prima quel maledetto cucchiaio , poi m’infilerà nel naso e nelle orecchie quell’altro attrezzo infernale, non contento  peregrinerà lungo schiena e torace con quel fonendoscopio polare  per una diligente verifica a cuore  e polmoni , infine terminerà  quel disumano supplizio con una robusta martellata sulle mie fragili ginocchia e le tenere piante dei piedini.

Con lo sguardo assorto e severo farà segno a mia madre  ritta in piedi, intimorita e diligente nel seguire  in religioso silenzio  l’interminabile rito ,  di rivestirmi, si alzerà lentamente , girerà attorno al lettino poi sederà  , dopo aver   sistemato il cuscinetto  sulla sobria poltroncina .

Aperto il cassetto  disporrà meticolosamente sulla scrivania una mezza dozzina di fogli a righe , la matita opportunamente temperata,  e  il lapis rosso e blu , infine , in un silenzio sepolcrale,  metterà per iscritto la sua dettagliata anamnesi. Un vero romanzo, venti minuti almeno di indecifrabili appunti, dettagliate considerazioni e circostanziate note , la mamma nel frattempo preferirà trasferirsi con le due pesti in sala d’attesa.

Nella stanzetta al di là della grande vetrata una sediolina a dondolo rosso scarlatto , un pupazzo di gomma vagamente somigliante a Pinocchio e una mezza dozzina di automobiline colorate.

Assisterò alla stessa liturgia respirerò quegli odori e ritroverò quell’imbarazzante atmosfera , quando, diciamo vero - citando un celebre intercalare dell’attempato professionista - quarant’anni dopo, completato il tris, deciderò di portare l’ultimo nato in visita da quell’infaticabile specialista.

Il mitico “Canga” ormai ottantasettenne , la mente ancora lucida lo sguardo sempre vigile , replicherà quei gesti, impugnerà un identico lapis e comporrà   un nuovo torrenziale referto prescrivendo una miracolosa quanto macchinosa terapia assai difficile da seguire al giorno d’oggi.

Il tempo sembra essersi fermato in quel signorile appartamento del quartiere Trieste,  tutto è rimasto come allora, nella camera accanto la vermiglia poltroncina dondola ancora , sparpagliati sul parquet gli stessi giocattoli .

Una serena fanciullezza ,pochi amici e qualche giocattolo più caro di altri, tra questi  mi torna subito in mente un ciondolante cavalluccio a dondolo trovato la notte della Vigilia sotto l’albero di Natale    rallegrato di luci e colori e ornato di palle e nastri dorati, innalzato sul parquet della mia stanza .

Allora si allestivano abeti autentici – il più delle volte gradito omaggio di zio Gino e della forestale - non  volgari imitazioni di plastica puzzolente , mamma come al solito aveva decorato la casa sistemando il vischio e i festoni sulle cornici dei quadri appesi all’ingresso , appena un tocco natalizio sui quadretti accanto al divano nel salotto buono.

I cavalli per me dovevano essere un vero e proprio chiodo fisso - non avevo ancora scoperto l’altra metà del cielo - ne disegnavo continuamente, macilenti e in chiaroscuro i primi , sempre più paffuti e colorati i successivi, chissà , forse per questa mia antica passione il primo verso d’animale insegnato al piccolo Alessandro è stato proprio quello del simpatico ronzino. Quando me ne stavo al calduccio nel mio letto, vittima di qualche malanno di stagione, ne riempivo blocchi e quaderni.

Amavo molto disegnare e tutti mi prospettavano un futuro roseo da affermato artista del pennello, non li deluderò ma d’altra pasta sarà il pennello di cui mi servirò qualche anno più tardi per deliziare disinibite fanciulle in calore.

Un altro gingillo che difficilmente scorderò fu uno dei rari doni di nonna Nannina regalatomi nel giorno della Befana di chissà quale anno.

Mi trovavo nella stanza dei fratelli, sfogliavo uno di quei sussidiari delle scuole elementari ricco di colori vivaci e caratteri in neretto che si impiegavano all’epoca per approfondire i  brevi e scarni racconti dei libri di lettura. Frequentavo probabilmente la prima elementare, succhiavo un pezzo di carbone dolce trovato nella calza appesa alla cappa della cucina e nel frattempo  osservavo al di là dell'enorme finestra a parete  le nuvole che lambivano le antenne del palazzo di fronte minacciando pioggia, erano gonfie, piene come otri e diffondevano  nella camera quell’intenso odore d’acquazzone imminente che sin d’allora mi faceva impazzire.

Il cielo era ormai color latte quando le prime lacrime cominciarono a tintinnare sui vetri, dapprima lentamente poi sempre più frenetico scendeva finalmente il temporale su Piazza Gondar quasi del tutto deserta dato il giorno di festa.

Fissavo la pioggia trafiggere l’asfalto, era bello vederla precipitare a scrosci e scivolare lentamente per raccogliersi in docili rigagnoli che ruzzolavano sotto i bordi del marciapiede. A volte formava pozzanghere e lì  andava a specchiarsi quel po’ di luce che ancora sopravviveva al grigio della giornata invernale, poi riprendeva il suo lento cammino , tornava a far mulinello e con un’ultima piroetta  finiva inghiottita dalle grate dell'asfalto bagnato,  nero e lucido dove si rifletteva la città.

D’un tratto il campanello della porta mi riportò alla realtà destandomi da quel piacevole torpore , papà e la nonna erano entrati nella stanza con un enorme pacco confezionato con un foglio di carta natalizio rosso agghindato con una fettuccia argentata. Era proprio per me , strappai eccitato prima il fiocco poi la carta e ai miei occhi miopi, comunque entusiasti, apparve uno splendido modellino di garage con due macchinette a carica che scivolavano giù nella rimessa e rombando tornavano poco dopo in superficie.

L’amico più caro fu però certamente un tenero orsetto peloso legato al primo ostacolo che la vita mi piazzò davanti quando ancora l’esistenza era solo gioco e affetti: l’operazione per rimuovere le tonsille.

Il giorno prima del  martirio i miei mi portarono a spasso per comprarmi un regalo, quasi fosse un risarcimento anticipatamente dovutomi per l’imminente intervento. Tra le tante vetrine decorate per le feste natalizie lo scorsi quasi per caso, era un dolcissimo orsacchiotto di peluche, lo ricordo perfettamente come l’avessi ancor oggi tra le mani, due grandi orecchie marroni , un musetto bianco latte con al centro un nasone nero, gli occhioni languidi , il pelo morbido color terra di Siena e una grossa macchia bianca sulla pancia.

Mi sembra di ricordare che costò parecchio – 3.000 lire mi pare - che all’epoca , correva l’anno  1962 , doveva essere una cifra di tutto rispetto.

Mi chiesero che nome volessi dargli.

 Clemente!” esclamai.

Avevo infatti saputo da pochi giorni che il mio nome completo era Marco Nicola Clemente, scelta di mio padre il primo, retaggio del mio  misterioso padrino il secondo – il fantomatico avv. Nicola Bonacina appunto – che non avrò mai più il piacere di rivedere,  curioso nomignolo le cui motivazioni ignoro il terzo.

Lo riposero con cura in attesa dell’intervento chirurgico ,non vedevo l’ora di abbracciarlo e averlo con me , compagno prezioso nelle notti scure popolate d’orchi e streghe cattive che allora mi facevano tanta paura.

La sera dell’operazione ,saranno state le sei del pomeriggio, il cielo era buio e pioveva forte, rivoli d’acqua si formavano sui vetri della finestra accanto al lettino d’ospedale , la pioggia batteva insistente, accanto a me c’erano  mamma e Liliana - la fedele domestica - d’un tratto entrò un infermiere, ci chiese di prepararci, mamma fece per accompagnarmi ma fu trattenuta da quell’omone tutto vestito di bianco, per nulla tranquillizzante.

Poco dopo mi trovai dentro un grande e freddo ascensore interamente rivestito di metallo in compagnia  del carnefice e della mia affezionata tata ad ore .  Giunti al piano della sala operatoria l’infermierone  ordinò alla mia accompagnatrice di fermarsi. Con gli occhi gonfi e rossi che trattenevano a stento le lacrime cercai lo sguardo rassicurante della mia ultima amica , incontrai  il suo sorriso poi avvertii la mano ruvida del  crudele  gendarme nella mia e con il capo chino varcai rassegnato la soglia della stanza degli orrori.

Alzai lo sguardo , mi guardai attorno c’era un forte odore di disinfettante ,dava alla gola, poi , prima ancora di potermi rendere perfettamente conto di quanto stava per accadere,  mi afferrarono, mi legarono ad una sediaccia mani e piedi e mentre l’aguzzino mi teneva fermo quel boia del chirurgo pensò a spalancarmi la bocca infilandomi un ferro in gola e l’altro nel naso, provai a liberarmi dimenandomi come un forsennato ma fu tutto inutile.

Probabilmente quel medicastro quel giorno aveva una gran fretta ma certamente non fece nulla per incoraggiare quel bambino spaventato, strappò quel che doveva e mi lasciò a vomitare sangue, poi rivolgendosi all’altro tipastro lo invitò a riaccompagnarmi in camera.

Rimasi amareggiato per quel brutale trattamento che proprio non mi aspettavo, ero triste, ma non potevo proferire parola , fui costretto a tenermi tutto dentro.

Fu la prima esperienza di vita, compresi da quel giorno che quando ti rode qualcosa è inutile parlarne con gli altri, meglio inghiottire il rospo , aspettare che ti passi ed abituarsi a dominare i propri sentimenti.   Ce l’avevo con tutti ed in cima alla lista c’era il mio angelo custode ,  me ne avevano parlato tutti tanto bene suggerendomi di rivolgermi a lui in caso di bisogno e non riuscivo a capire che fine avesse fatto.

Mamma tentò di consolarmi ma non volevo nessuno intorno, mi avevano ingannato, lei per prima con tutte quelle chiacchiere per farmi stare buono , mi avevano raccontato un mucchio di stronzate .  Mentire -  m'avevano spiegato -  era molto grave  per un bambino, un peccato mortale, potete facilmente immaginare quindi come dovevo sentirmi  io in quel momento , considerato che   a raccontare frottole in questo caso erano stati proprio i grandi.

Aprirono l’armadietto e tirarono fuori il premio.

Quel povero peluche volò nella stanza colpito al centro di quell’antipatico muso bianco, da un violento pugno sferrato con tutta la rabbia che avevo in corpo.

Pian pianino dimenticai quell’amara giornata , la collera si raffreddò, tra gli scaffali della mia cameretta, tra soldatini, costruzioni  e camioncini , ritrovai Clemente lo portai con me per qualche notte tentando di ricucire quel rapporto reciso sul nascere , diventò un amico inseparabile con cui dividere le gioie e i timori  della fanciullezza.

Qualche anno dopo, quando ormai grandicello già pensavo alle ragazze e alla musica rock, ricordo che mia madre lo ritrovò sporco e impolverato tra le cianfrusaglie dello sgabuzzino. Lo regalammo ai bambini poveri insieme ai vestiti che non ci stavano più e alle scarpe diventate troppo strette, provai un nodo alla gola,era triste separarsi per sempre da quel simpatico amico peloso.

Chissà dove sarà ormai? Probabilmente sarà finito nella spazzatura o dimenticato in qualche soffitta buia, ma  forse, chissà, anche in questo momento un bimbo spaventato lo stringerà al petto chiedendo a quel musetto bianco e a quegli occhioni languidi un conforto nelle nottate tenebrose piene di spaventosi fantasmi e lupi cattivi.

Già quant’erano lunghe le notti quand’ero piccolo!

Chi pagava lo scotto di quelle interminabili ore era mio fratello Paolo che nel cuore della notte mi sentiva scivolare  nel suo letto terrorizzato, comprendeva tuttavia la  mia angoscia e mi lasciava dormire il resto della notte insieme a lui, in fondo qualche anno prima aveva vissuto quelle stesse paure e aveva chiesto aiuto a sua volte al primogenito  , tenendo stretti tra le manine i capelli del paziente fratellone  per darsi coraggio.

Aurora  m’accompagnava invece al gabinetto, la chiamavo con un fil di voce ,lesta s’alzava dalla sua brandina e mi prendeva per mano, non inforcavo neanche gli occhiali, sarebbe stato inutile,  mi lasciavo guidare lungo il corridoio che conduceva al bagno grande, mi restava accanto in attesa che svuotassi l’intero serbatoio – operazione di un certo impegno già a quei tempi - poi mi riportava a letto.

Avevo appena nove anni quando nel 1965 la Rai mandò in onda un fortunato sceneggiato televisivo, interpretato da un’enigmatica Juliette Gréco , favoleggiava di un terrificante spettro egizio che vagava di notte per le grandi sale del Louvre avvolta in un manto nero per compiere mostruosi delitti alla ricerca del tesoro dei Rosacroce , il suo nome era  Belfagor”. Le inquietanti fattezze in bianco e nero di quella spaventosa maschera , divennero da allora il peggiore dei miei incubi.

Da poco più di un anno è uscito nelle sale un remake di quell’agghiacciante storia  con la splendida attrice francese Sophie Marceau, una fighetta niente male, nei panni del terribile fantasma . Ci credereste? Non ho ancora avuto il coraggio di vederlo,  quando entro al videoclub sosto  incuriosito di fronte al ripiano dove è collocato il DVD con la precisa intenzione di noleggiarlo preso da un incontenibile horreur fascinatrice , prendo in mano il cofanetto, osservo la  copertina , scorro la trama del film,  poi ripenso a quelle notti insonni e taglio la corda .

In quel tempo ero io la femminuccia di casa , i fratelli si divertivano a prendermi in giro cercando di convincermi che ce l’avevo di gomma importato da Hong Kong, non me la prendevo, ero il piccolo di casa e mi divertiva tanto averli  intorno a fare caciara.

Lella al contrario  era esasperata  dai crudeli scherzi dei fratelli maggiori,  soprattutto quelli orditi dal più grande. 

In attesa del pranzo seduti sulla panca  attorno al tavolo del tinello io e Paolo con il piatto tra le mani fingevamo di guidare  scrollando di tanto in tanto  la forchetta come fosse il cambio di  un'immaginaria automobile,  Piero intanto  stuzzicava la malcapitata sorellina ,a quel tempo piuttosto paffuta, soprannominandola Aurora Turina, celebre e adiposa cantante piuttosto in voga in quegli anni.

 Il pianto della poverina  arrivava alle orecchie di mamma che in cucina stava finendo di preparare il pranzo, ma, al suo arrivo ,Piero come se nulla fosse accaduto assumeva un’aria innocente e compassata negando qualsiasi addebito , gli altri due maschiacci dovevano stare al gioco altrimenti sarebbe finito lo spasso.

Povera Lelletta senza di lei forse oggi non sarei qui a raccontarvi questa storia, quante volte avrà richiamato l’attenzione di mia madre perché ero salito su un armadio o penzolavo come una scimmia dal davanzale della finestra?

Cominciarono a chiamarmi il negro, non ne ho mai capito la ragione precisa, forse perché  mi divertivo un mondo a ciondolare da scale, credenze e ringhiere, o più probabilmente in forza del fatto che  ero piuttosto accomodante e servizievole . Tra gli altri mio era anche l’ingrato compito di portare la spazzatura nei grandi cestini di alluminio collocati in quegli anni nel cortile del palazzo, mansione che eseguo con dedizione tuttora e continuerò probabilmente a svolgere per il resto dei miei giorni,  anche se al posto  di quei contenitori ci sono oggi i moderni cassonetti piazzati ormai agli angoli delle strade.

Come arrivava la sera e s’avvicinava l’ora del rientro di Paolo che era grande e -  beato lui -  poteva uscire da solo,  mi nascondevo sotto i letti o dietro gli scaffali ed aspettavo che mi venisse a cercare.

Al suo rientro il fratellone che ormai conosceva le mie bizzarre abitudini frugava dappertutto,  sotto le reti, dietro le porte o sopra gli armadi e quando infine riusciva a scovarmi ridevamo insieme di gusto. Quando saltuariamente mamma mi lasciava uscire con lui, e soprattutto nelle rare occasioni in cui era disposto a portarmi con sé, toccavo il cielo con un dito, andavamo spesso  al cinema Boito in via Pietro Mascagni ,con i biglietti omaggio dono di zio William ,a vedere il più delle volte gli spaghetti western del momento o gli immortali film d’avventura.

Un pomeriggio dopo aver assistito alla proiezione de La battaglia di  Alamo con il granitico Jhon Wayne nelle eroiche vesti di Davy Crockett, tornammo a casa di  corsa  incitando i nostri illusori destrieri ad un galoppo forsennato e schiaffeggiando i nostri fianchi - incauta sella -  fino a renderli gonfi e color rosso fuoco con venature di un verde livido tendenti al nero di seppia.

O quel pomeriggio in cui Paolo ,novello Guglielmo Tell, nel lanciare le freccette del tiro a segno intorno alla mia sagoma addossata alla parete della stanza, mi centrò al fianco!

Giorni felici, spensierati mentre mamma e papà cercavano faticosamente di far quadrare il magro bilancio familiare, ma noi non ne sapevamo niente, per noi vivere era solo un gioco meraviglioso.

Nei primi anni dell’infanzia giocavo soprattutto con le bambole di Aurora, fenomeno curioso indubbiamente, ma certamente più insolita  era la circostanza che  contemporaneamente la mia sorellina se la spassasse con le mie pistole! (?) E’ probabile che mentre si ciondolava nel ventre materno le idee si erano un tantinello confuse e i ruoli  invertiti .

Col tempo tuttavia il  mio gagliardo lato maschile  prese  il sopravvento e le bambole da coccolare furono altre in carne e ossa  -  - particolarmente apprezzata la carne - ma non è il caso  di anticiparne  ora aspetti e contenuti , la stagione degli amori ,dei foruncoli e degli ormoni in fermento è ancora lontana.

Passiamo di palo in frasca  - che cazzo vorrà dire ancora me lo devo spiegare, manco mi chiamassi Tarzan -  e torniamo alle festività di Natale.

 Che meraviglia quando arrivavano le feste , quelle vere! Quando la scuola chiudeva per quindici giorni, il freddo fuori si faceva pungente e ogni tanto villa Chigi si sporcava di bianco!

Le strade intorno a Piazza Gondar erano tutte illuminate con ghirlande di stelle  comete  abbracciate  ai lampioni che   riflettevano sull’asfalto il loro scintillio e si specchiavano nelle vetrine decorate dei negozi. Abeti impreziositi da palle luccicanti ornati con fili oro e argento, colori chiassosi e tanta gente che sciamava per viale Libia, via Lago Tana e le strade adiacenti. 

Non si badava a spese e l’aria di festa aleggiava intorno a tutte quelle figure intirizzite raggomitolate  nei cappotti e nelle sciarpe di lana.

Marco bambino non vedeva tra di loro volti stanchi né poteva scorgere indizi di vite disperate o immaginare storie tristi, Natale era solo gioia, allegria,  doni da scartare e dolci da divorare.

Tra le calde pareti della mia stanza, al riparo dal gelido vento di dicembre , le manine appoggiate al termosifone acceso ,   al di là dei vetri appannati dal gelo  osservavo rapito la luccicante insegna di Motta che troneggiava di fronte ai miei occhi :  una gigantesca  M” fissata sulla facciata del palazzo di fronte.  Enorme! Luminosa! Gioiosa! Quella lettera  era per me il simbolo stesso delle feste di fine anno,  al di sotto , all’angolo tra piazza Gondar e viale Libia , sui marciapiede formicolante di gente  sfilava l’interminabile  teoria di vetrine sfavillante di luci e  decorazioni ,  traboccante di paste, spumanti e dolciumi del Bar- Pasticceria  Motta, assediato , mai come in quei giorni , da frenetici  avventori alla spasmodica ricerca dell’ultimo regalo di Natale.

La devastante crisi economica degli anni settanta dapprima ridusse quell’elegante locale  ad un modesto esercizio con un paio di bacheche,    qualche anno più tardi lo fece definitivamente ingoiare dalla solita banca pronta ad impadronirsi dei loculi lasciati sgombri  dai cadaveri della globalizzazione. 

Il profilo di quella  monumentale “M” ormai rimossa rimase per anni delineato sull’edificio  ,almeno fino a quando i condomini non decisero di ripulire la facciata, quel giorno quegli spietati operai  portarono via con quella mano di vernice  insieme a quell’antico emblema  anche parte  della mia adolescenza. 

In casa Tiddi torroni, panettoni e pandori non mancavano mai e ancora oggi che papà non c’è più ,ricordo con nostalgia i pacchi dono pieni di leccornie - come le chiamava lui - che fino a che ci è rimasto accanto ha continuato a regalarci insieme alla tanto ambita busta di Natale.

La sera della vigilia senza di lui  non è più la stessa, ascolti ancora la sua voce divertita che t’implora di non mangiarti tutti i torroni che hai scovato come sempre - nonostante il vano tentativo di nasconderli nei  posti più impensati - osservi la  sedia vuota attorno al tavolo apparecchiato, avverti ancora la sua presenza sulla poltrona rosa che era la sua cabina di regia  durante lo scambio dei regali, ti si chiude lo stomaco mentre un brivido attraversa improvviso la  spina dorsale e un nodo alla gola sembra volerti soffocare.

Adesso basta con tutto questo zucchero! Rischio di farvi salire la glicemia per poi costringervi a dosi cavalline d’insulina.

All’epoca in cui papà lavorava all’Intercontinentale  in occasione della festa dell’epifania la Compagnia distribuiva ai figli dei dipendenti doni e giocattoli . Particolarmente gradita, da me non certo dai miei atterriti congiunti ,  fu la lussuosa confezione de Il piccolo chimico.

Un infausto pomeriggio mentre approntavo chissà quale cervellotico esperimento sdraiato sul pavimento della mia stanza , allora in condominio con la prepotente sorellina  ,  versai goffamente dell’alcool sulla mia mano , che,  avvicinatasi incautamente alla fiamma del becco   Bunsen , prese immediatamente fuoco . Bruciava come una torcia, così, spaventato, cominciai ad scuoterla energicamente, un attimo dopo mi resi conto con vivo stupore che la fiamma s’era spenta senza lasciare traccia di ustioni.

Compresi immediatamente che quello non era pane per i miei denti e se è vero che una carriera di scienziato  fu stroncata sul nascere è pur certo che salvai la pellaccia mia e di chi mi stava accanto evitando pericolosi, ulteriori “ritorni di fiamma”.

Abbandonate bambole,spazzole e pettinini cominciai a trastullarmi  con giochi da maschio , prediligevo i minuscoli soldatini dell’Atlantic e  le costruzioni Lego . Gli amici con i quali dividere le ore di svago erano sempre gli stessi : il rotondo Francesco Giuffrida -  mio compagno di banco alla “Contardo Ferrini” dove frequentavo la scuola elementare - e mio cugino Fabrizio.

Esisteva però un ostacolo di non poco conto:i due non si sopportavano anzi si detestavano reciprocamente, non mi era pertanto possibile frequentarli simultaneamente . Il primo, Franco, all’epoca dei fatti era un bambinone timido e riflessivo ,l’altro, Scachetta- nomignolo conferitogli qualche anno più tardi dagli amici del gruppo - era di contro indisponente e  strafottente e si divertiva un mondo a prendere in giro l’eterno rivale , i litigi, quando si stava insieme, erano inevitabili.

Che fare? Schiacciato  tra l’incudine e il martello non potevo andare a giocare a casa dell’uno senza che l’altro si offendesse, cercavo di smorzare i toni , di calmare gli animi ma era tutto inutile. Fu allora che inaugurai quella saggia filosofia di vita che ancor oggi mi sembra la migliore per evitare di massacrarsi le palle a forza di smussare gli angoli  - il più delle volte quelli degli altri – che consiglia ”vivi e lascia vivere.” Resta tuttavia l’incognita che tu potrai pur far vivere gli altri come gli pare ma non è detto che loro siano disposti a lasciarti campare in pace e grazia di Dio.

Il mio più caro amico abitava di fronte casa , al civico 7 della stessa Piazza , dal balcone della camera da letto dei miei potevo vedere il suo, il telefono era allora territorio di caccia riservato ai soli  genitori, per parlare tra noi non ci restava altro da fare che affidarci alle convulse allegorie dell’alfabeto muto.

Non riesco ancora a capacitarmi di come riuscissi all’epoca ad interpretare i segni del mio compagno di banco a quella distanza, evidentemente la mia vista era più acuta  , oggi non sarei in grado di scorgerne  la sagoma, probabilmente  neppure a distinguere il balcone, forse a stento individuerei il palazzo.

Il gesto era inequivocabile ,aveva finito i compiti, mi precipitavo  in  camera,infilavo le scarpe ,le allacciavo alla buona - non era il mio forte allora ...né oggi -  un cenno di saluto ed ero già fuori casa. Scendevo le scale a quattro per volta , in un baleno ero al primo piano, rallentavo prudentemente la corsa perché i gradini si facevano più ravvicinati e stretti ,ma in fondo recuperavo con un balzo il tempo perduto. Come una freccia attraversavo l’androne passando di fronte all’attonito Marino - il solerte e attento portiere dello stabile - un attimo dopo ero sul marciapiede, uno sguardo a destra  uno a sinistra, come m’aveva insegnato mamma, attraversavo la strada e m’infilavo nel portone di fronte.

Il gioco preferito in  compagnia di Franco era quello del calcio adattato a quelle che erano le dimensioni  della stanzetta che fungeva da campo di gioco , ovviamente anche le regole non erano esattamente le stesse. Piazzavamo le poltrone verde smeraldo,ai due angoli opposti della camera a guisa di porta ,ci disponevamo nel mezzo e appallottolato un giornale o talvolta un paio di calzerotti - il più delle volte puliti  ma non necessariamente -  cominciavamo l’incontro.

Scopo  del gioco era quello di far rotolare quella palla così arrangiata sulla poltrona alle spalle dell’avversario colpendola con le mani, mai più di una volta. La partita finiva quando la carta era irrimediabilmente sfilacciata o il mio amico, ansimante, grondava sudore come una fontana, la madre in questo secondo caso si catapultava nella stanza come una furia - battendo immancabilmente le ginocchia contro la poltrona - e nel vano tentativo di strapparci l’involucro maledetto cominciava ad imprecare come un camionista curdo sorpassato in curva sotto un tunnel.

Quando il clima lo consentiva e soprattutto quando l’arzilla zia Rosa – affabile sorella dello scontroso papà di Franco - veniva a trovare il mio amico era per noi  giorno di festa,la simpatica vecchina ci portava infatti a giocare a Villa Chigi con un pallone vero , sia pure un Supertele da due soldi , dietro al quale correvamo tutto il pomeriggio fino a stramazzare stremati a terra.

L’amico del cuore tuttavia aveva un rilevante difetto,era un secchione da paura, il dieci in tutte le materie era prassi consolidata e l’inevitabile confronto era sempre dietro l’angolo quando mia madre controllava i miei voti ed esaminava con i miei insegnanti il mio rendimento scolastico.

Il sei stracciato era il voto massimo che riuscivo ad ottenere sin dalle elementari dalle mie instabili meningi, senza dubbio poco inclini allo studio e certamente più attratte  da intrattenimenti ludici di vario  genere.  Piuttosto che dedicarmi a barbosi libri di testo preferivo infatti dilapidare quel po’ di vista  che mi rimaneva nella peccaminosa visione di riviste per soli adulti – le ore, caballero o Man le più gettonate -  utili, ma non indispensabili , per certe mie esercitazioni manuali tipiche dell’età puberale.

Nell’intimità  del confessionale , al quale mi avvicinavo periodicamente reo confesso , Don Nello , informato delle mie turpi abitudini,  mi aveva più volte rimproverato profetizzandomi la dannazione del fuoco eterno per essere  incappato in un simile peccato mortale , nonostante  la gravità del crimine , me l’ero comunque sempre  cavata con una decina di Ave Maria e altrettanti Padre Nostro. Più preoccupante  di contro quanto sosteneva la mamma che propendeva per l’ipotesi di un concreto rischio di progressiva e irreversibile cecità nel caso di reiterazione dolosa del reato di “manovella”.

Evidentemente ,visti i risultati, aveva ragione quest’ultima.

Per farla breve  insomma me piaceva da gioca’, collezziona’ figurine de’ carciatori e guarda’ le donne nude!

Un particolare articolo di cartoleria invidiavo comunque al mio erudito amico, quegli eleganti quaderni a spirale da cui si potevano agevolmente staccare i fogli a righe o a quadretti da scarabocchiare. Purtroppo mia madre non me li volle mai comprare, forse perché ero solito riportare a casa da scuola solo le copertine - falcidiate da pieghe e ghirigori -  dei “normali” quaderni “Pigna”.

Durante le interminabili ore di  lezione la mia mano svelta tracciava sulle  pagine, malamente stracciate dal quaderno, cruente battaglie di terra, di cielo e di mare.  Disegnavo centinaia di minuscoli soldatini che da un fronte all’altro della pagina si sparacchiavano contro schizzi d’inchiostro, le traiettorie dei colpi tratteggiati a penna bic attraversavano il foglio centrando l’eroico fante che ,colpito a morte, veniva frettolosamente cancellato da un getto più denso d’inchiostro rosso. Dopo un’epica lotta il foglio di carta si trasformava in un immenso cimitero di scarabocchi, segnacci ,linee dritte, curve e gomitoli d’inchiostro trascinati in una densa spirale che svaniva in un buco nero : un foro al centro della pagina dove tutto spariva in una baraonda infernale.

Gli incontri di calcio virtuali formato foglio protocollo seguivano più o meno le medesime direttive. Una volta tratteggiato il rettangolo di gioco delimitato  dalle linee bianche , definite le aree di rigore e il cerchio di centrocampo ,comparivano uno ad uno - abbozzati con tanto di maglietta calzoncini calzerotti e numerino - i ventidue giocatori che prendevano a calciare un puntino d’inchiostro,  diretti  da un bacarozzetto nero e dai  suoi assistenti  disposti ai margini del foglio e incitati da un folto e rumoroso pubblico schierato sulle tribune , munito di striscioni e bandierine che garrivano al vento. Non mancava nulla, persino gli sponsor e i fotografi a bordo campo trovavano posto su quel pezzo di carta a quadretti.

La domenica ero spesso ospite del mio paffuto compagno di banco nella casa di campagna che i genitori possedevano nei pressi di Zagarolo, la  cosiddetta Vigna , e lì ce la spassavamo alla grande in compagnia  della piccola Melina, la sorella minore segretamente innamorata del sottoscritto ,  organizzando improvvisate gare di atletica, interminabili partite a pallone ed allegre corse a perdifiato lungo i saliscendi degli aridi terreni circostanti.

Qualche anno dopo tornammo alla Vigna per stillare il vino, con noi l’amico Mauro, bevute colossali, danze tribali a piedi scalzi nei tini  colmi d’uva e , a sera,  prima di prender sonno, leggendarie gare di scureggie nella piccola stanza da letto al piano rialzato trasformata in pochi istanti in una micidiale camera a gas.

Certamente non era difficile divertirmi con Franco, amavamo più o meno gli stessi giochi, più complicato invece trovare un punto d’incontro ludico con Fabrizio a cui piacevano i trenini elettrici...a me i soldatini...non restava che trasbordarli tutti sui vagoni e avviarli verso l’eroico e fatale combattimento che li aspettava lungo il percorso oltre la galleria di cartapesta.

Gioco divertente,  non lo nego, tuttavia il nostro trastullo preferito era quello di far arrabbiare Flora, la “tata” della numerosa prole che stanziava, anzi, sciamava nell’appartamento di via Maestro Gaetano Capocci diventata, nel frattempo, la dimora di zio William e zia Nanda.

Quando quest’ultima, improvvida, usciva trafugavamo il pallone di cuoio dallo stanzino e cominciavamo a giocare in cucina. Io dovevo centrare un’anta dell’armadio a muro dietro di lui mentre il cuginastro tentava di  “segnare” colpendo la porta del bagno di servizio alle mie spalle che percossa da violente pallonate gemeva pericolosamente sui cardini.

Vano era il penoso tentativo della povera Flora di farci smettere minacciando un particolareggiato  resoconto dei nostri misfatti a chi di dovere, inutile  il suo prodigarsi nel provare a strapparci  la sfera assassina in un pandemonio di colorite imprecazioni,urla disumane e colpi sordi contro le incaute e improvvisate porte da calcio.

Le figurine! Le Grandi raccolte per la gioventù!  Che spasso collezionare quelle dei calciatori, degli assi dello sport ma soprattutto quelle dedicate al Rinascimento dell’album “I Secoli d’oro”.

Ricordo come in un fermo immagine quando papà mi regalò quello splendido album colorato della Panini, in copertina campeggiava l’eroica figura di un prode cavaliere protetto da una luccicante armatura in sella ad un magnifico destriero ornato con preziosi e policromi finimenti.

Eravamo andati, come accadeva di sovente la domenica - il traffico era scarso - ad incontrare qualche cliente in una borgata periferica colonizzata a suo tempo da un nutrito gruppo di emigranti pagliaresi,  tra la via Collatina e il Grande Raccordo Anulare, nota come  La Rustica . Arrestò l'auto come di consueto accanto all'edicola per acquistare il giornale , d’un tratto incontrò con il suo sguardo i miei occhi nascosti dalle spesse lenti che osservavano incantati l’album appeso con una molletta   alla tettoia  del chiosco, ero immobile la bocca  socchiusa in un espressione di stupore,  la manina sudata racchiusa nella sua. Infilò il quotidiano sotto il braccio mi sistemò tra le sue gambe per liberare la mano ed estrasse di nuovo il portafoglio dalla giacca, poco dopo stringevo felice l’album nella mano mentre una decina di pacchetti di figurine facevano capolino dalla tasca del mio cappottino.

Quei paesaggi da fiaba popolati da maghi, streghe , re e valorosi paladini  che combattevano su prati erbosi nei pressi di leggendari castelli eccitarono la mia fantasia suscitando in me la smodata passione che da allora provo per la storia.

Purtroppo a Fabrizio la mia collezione piaceva poco per lui esistevano soltanto i calciatori e i campioni dello sport.

Quando giocavamo a soffietto o a pari e dispari per vincere le figurine mancanti con i compagni di scuola , mi affidavo di regola alla sua abilità, io ero una vera frana ed ogni volta che tentavo la fortuna perdevo immancabilmente grappoli di doppioni raccolti nel tradizionale mazzetto immobilizzato dall’elasticone verde.

La figurina di un giocatore difficile da trovare in quell’epoca era quella di Pascutti, centrocampista del favoloso Bologna  anni ‘60, quando finalmente riuscii a snidarla nell’ennesima bustina completai l'album  finalmente gonfio di figurine e coccoina , a quel punto però i giochi erano fatti  , non restava che aspettare l’inizio del campionato successivo.

Era il magico momento della grande Inter di Helenio  Herrera e lo squadrone nerazzurro trionfava in Italia ed Europa con la mitica formazione: Sarti, Burnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Bertini,  Mazzola, Suarez, Corso e Jair .

Un tardo pomeriggio , durante un furioso temporale di una delle tante domeniche trascorse in casa a guardare la televisione,   seguii la sintesi di una loro partita , fu amore a prima vista.

Quando la mia squadra giocava a Roma contro la Lazio zio William, scalmanato tifoso biancazzurro, mi portava con sé allo Stadio, quei minuscoli omini che correvano dietro a un pallone invisibile ai miei occhi  mi procuravano però solo vertigini e un forte mal di testa.

Quella che credevo un’incrollabile fede durò fino ai primi anni ottanta quando,dopo lo stallo degli anni settanta nei quali a tutto pensavo tranne che al calcio, incontrai il vero amore e il mio tifo si colorò di giallorosso.

La domenica mattina mi recavo spesso con papà al Totocalcio a trovare il fratello, l’instancabile e leggendario Rag..  Era una pacchia!

Lo zio William – Wigliuccio per i nipoti - mi regalava sempre matite,pennarelli e block notes su cui disegnare o attaccare i doppioni scampati allo sterminio del pari e dispari . I lunghi corridoi e gli ampi stanzoni di largo Maresciallo Diaz 13 diventarono ben presto familiari , qualche anno dopo cominciai a lavorare lì come ausiliario guadagnando i primi quattrini per acquistare i miei dischi preferiti, ma questa è un’altra storia.

Con l’aiuto di Fabrizio scrissi il mio primo libro ,lo  intitolai  Il librone, era un grande blocco quadrato con centinaia di pagine,  copertina in finta pelle rosso fiamma; incollai su quei fogli figurine d’ogni specie,calciatori,dinosauri,animali e piante, il tutto diviso per categorie ,accanto ad ognuna una breve didascalia .

La domenica e i giorni di festa ci recavamo  spesso in via Cartagine – zona Quadraro -   a far visita a zia Maria,  la remissiva sorella di mia madre ed  insieme trascorrevamo piacevolmente  il pomeriggio guardando in Tivù Quelli della Domenica , la  popolare trasmissione domenicale  di varietà condotta da Raffaele Pisu con la partecipazione di Paolo Villaggio nei panni del teutonico professor Franz Kranz e di Cochi e Renato all’ esordio televisivo , poi , mentre le sorelle conversavano  amabilmente di guai e parenti , ci occupavamo di far sparire le paste acquistate prima di partire da Marinari e seguivamo la consueta sintesi di una partita del campionato di calcio trasmessa nel tardo pomeriggio , infine, soddisfatti,  ce ne tornavamo allegramente a casa. Non di rado però, soprattutto nel periodo estivo o durante le vacanze di fine anno, mi capitava di restare da lei per il fine settimana.

Mi pare di ricordare che all’epoca fosse già vedova non ricordo infatti la presenza in casa di zio Gino , rammento però con chiarezza gli splendidi blocchi di carta a rotolo dono delle ferrovie dello Stato che quest'ultimo mi regalava, conoscendo la mia passione per il disegno, quando andavamo a trovarlo.

Zio Gino morì presto,echeggiano ancora nella mia mente le parole di conforto che mamma ebbe per la sorella quel triste pomeriggio nel quale dopo la scomparsa dello zio, venne a trascorrere qualche giorno da noi.

Capabianca , come affettuosamente la chiamavamo a causa della sua precoce canizie ,  da allora rimase spesso con noi - Lello era già sposato e Mimmi stava per imitarlo  . Era la donna più buona e generosa che io abbia mai conosciuto ,univa alla venerazione per la sorella un sincero amore per noi nipoti.

Sicuramente in Paradiso ascolta ogni nostro pensiero e segue ogni nostra azione pronta ad aiutarci ,  a lei di certo indirizzerei  la mia preghiera qualora ne avessi bisogno,sempre disponibile mai stanca di porgere aiuto, incapace di voler  male, di pronunciare una parola fuori posto o anche di meditare un solo cattivo pensiero.

Tanti anni dopo, poco prima della sua morte,  andai a trovarla alla clinica dell’Addolorata all’interno dell’ospedale San Giovanni, era ormai svanita, lo sguardo perso nel vuoto, le labbra secche e tremanti, non mi riconobbe, provai un tuffo al cuore . Le rimasi   accanto stringendo commosso quella mano scarna e gelida che tante volte aveva carezzato i miei capelli tessendone le lodi, anche allora su quelle gracili spalle l’eterno golfino di lana nero che non dimenticava d’infilare  neanche in pieno ferragosto.   

Qualche volta Maurizio detto Mimmi , il figlio minore,  mi portava con sé in una fumosa saletta di seconda visione, sistemata in una via adiacente, ad assistere alla proiezione di polverosi film western con carovane di pionieri in viaggio verso terre vergini e drammatici assalti alla diligenza.

In compagnia della  zia  invece salivo spesso al piano superiore da una vicina che aveva due figli più o meno della mia età, fu in quel piccolo appartamento che in un freddo pomeriggio di fine dicembre  accadde l’irreparabile.

Ero il più grande  tra i quattro o cinque diavoli che si erano riuniti a casa della signora Avitabile per festeggiare il compleanno di uno dei suoi ragazzi, la zia dopo avermi accompagnato era tornata nel suo appartamento , d’un tratto avvertii delle fitte lancinanti al basso ventre : tanto inaspettata quanto inopportuna s’era preparata sulla rampa di lancio una fitocca da primato, qualcosa di mostruoso,  mi scappava da matti!

Non riuscivo più a trattenerla, stavo già per tornarmene al piano di sotto per espletare le  ormai improcrastinabili  funzioni fisiologiche, quando un’impaziente “stronzetto” - di nome  e di fatto - scivolò lungo i pantaloncini corti  adagiandosi senza far rumore sul tappeto buono dell’ingresso. Naturalmente feci finta di niente e continuai a giocare con i miei amici come se niente fosse , sapevo tuttavia che  il ritrovamento del maleodorante batuffolo era solo questione di tempo. Pochi minuti dopo infatti , puntuale,  la raccapricciante scoperta , la padrona di casa , sconvolta, era impallidita alla vista del corpo del reato .

Durante la scrupolosa indagine prontamente  istruita per scoprire il sordido responsabile di una tale disgustosa nefandezza, nella spasmodica ricerca di prove inoppugnabili e delle inconfondibili tracce di “polvere da sparo” lasciate dall’inconsueta “arma del delitto” sugli indumenti intimi dei presenti, fu ordinato agli ovvi  indiziati  di calarsi le braghe.

Me ne stavo lì tremante , inorridito all’idea dell’inevitabile figuraccia che ne sarebbe derivata  ,quando accadde ,insperato, il miracolo:

“Marco tu vai pure! .La zia t’aspetta. Non puoi essere stato certo tu che sei il  più grandicello!” sentenziò  l'amabile padrona di casa.

Sì…Signora, certo…” balbettai incredulo “Arrivederci”.

In un lampo sgattaiolai fuori dal luogo del delitto e , scese di corsa le scale che portavano al pianerottolo del piano inferiore, suonai freneticamente il campanello della porta dell’appartamento di zia Maria.

Salvo! Ma che paura!

Anche con Paolo,complice l’età, mi divertivo un mondo a giocare, ritagliavamo dal “Corriere dei Piccoli” le figurine dei ciclisti pubblicate nell’ultima pagina di copertina, attaccavamo le silhouette ad un cartoncino opportunamente sagomato per renderle rigide e piegata la base già predisposta li facevamo avanzare a colpi di dadi sulle liste del parquet della stanza di Aurora . Gimondi, Adorni, Bitossi Taccone ed Anquetil correvano sul pavimento verso il traguardo collocato al bordo della porta finestra che portava in balcone, verso l’immancabile vittoria della corsa rosa e la gloria imperitura!

Quando era ora di uscire però mio fratello aveva ben poca voglia di portarmi con sé, inutile zavorra se si trattava di compiere qualche bricconeria e terzo incomodo nel caso di un fortunato incontro con qualche bella ragazza. Soltanto quando andava a giocare a calcio sul campo dell’oratorio aveva pietà ,ma si limitava a piazzarmi dietro la porta ad osservare i  grandi  giocare con la speranza che ogni tanto la palla finisse fuori per andare a riprenderla.

Proprio su quel terreno di gioco una domenica mattina afferrai al volo insieme a qualche palla calciata malamente fuori bersaglio la prima parolaccia.

Arrivato a casa attesi pazientemente la prima occasione utile per ripeterla poi,  mentre pranzavamo, approfittando di un maldestro movimento con il gomito contro la brocca e del conseguente spargimento di almeno mezzo litro d’acqua sulla tovaglia pulita - situazione assai ricorrente  - sparai un monumentale “Rimortangolieri”! Si trattava in fondo  di un innocuo  sinonimo - per di più edulcorato – della  triviale espressione dialettale  Li mortacci !”, ma tanto bastò. L’ardire mi fu fatale, riuscii appena a  percepire la folata di vento provocata  dall’avvicinarsi del  sonoro sganassone in arrivo,  ma quando tentai di scansarmi era già troppo tardi , una sventola formato autotreno mi aveva investito in pieno colorando di un acceso rosso porpora il mio sfortunato orecchio destro, la terrificante onda d’urto prodotta – pari al sesto grado della scala Mercalli – mi aveva praticamente disintegrato il timpano.

Lo sguardo di papà che mi fissava piuttosto incazzato , ma forse già pentito di quel gesto inconsulto,  mi rese chiara la situazione, sarebbe stato meglio per me dimenticare quella  colorita  imprecazione . Avevo capito la lezione:  evitare ad ogni costo il turpiloquio e ,se proprio necessario, scegliere un luogo lontano, dove mio padre non poteva sentire  e  attendere il momento giusto.

L’avvocato comunque raramente s’azzardò a metterci le mani addosso, ricordo solo un paio di episodi, quello appena raccontato ed un altro, molto più in là nel tempo, che mi ferì profondamente e del quale non ho voglia di parlare.

Chi invece era un po’ più dura nei nostri confronti era la mamma.

A dire il vero io ne presi pochine , ero piuttosto fessacchiotto , non mi piaceva fare arrabbiare nessuno  e, se sorvoliamo sulla consolidata abitudine ad arrampicarmi dappertutto e oscillare dagli armadi come uno scimpanzé, non rompevo troppo i coglioni. I fondoschiena di Piero ed Aurora al contrario ve ne potrebbero raccontare delle belle , bersagliati,  a torto e a ragione, dall’ira funesta di Fernandella indispettita  dalla strafottenza dei due.

Così va il mondo,beccati col sorcio in bocca nel fottersi qualche cento lire dal borsellino e sordi ai rimproveri di mamma Nanda , preferirono buscarsi una vagonata di  ceffoni piuttosto che rinunciare a quella loro scriteriata abitudine , niente di serio beninteso,ma quando tua madre continua a ripeterti “Meglio in galera che ladro” dovresti riflettere meglio sulle conseguenze delle tue azioni.

La sfiduciata vittima per sfuggire alle morbose attenzioni dei due monelli verso il Dio denaro era costretta a nascondere i soldi nei posti più impensati fino a dimenticarne l’ubicazione Ella stessa, accadde così che, quando sparirono la bellezza di cinquemila lire, i sospetti s’indirizzarono fatalmente verso il povero Piero.

Questi giurò e spergiurò dichiarandosi estraneo alla faccenda e professando invano la propria rettitudine , solo  quando misericordiosa la lavatrice restituì insieme al bucato la famigerata banconota, venne provata alfine la sua innocenza.

Anch’io un giorno ne beccai tante. Gran coglione a quei tempi.

Mamma era scesa un istante al piano di sotto dalla signora Sbrana lasciandoci soli non prima d’averci sciorinato  la solita ramanzina e le raccomandazioni di turno. Aurora, non so come, fece cadere i candelabri che ancora oggi ornano la consolle dell’ingresso, ammaccandoli irreparabilmente, si mise le mani nei capelli e in lacrime mi chiese disperata di accollarmi la colpa del tragico evento, rimasi perplesso invero, ma non abbastanza, se è vero come è vero che al ritorno dell’inviperita genitrice che osservava con raccapriccio i candelabri agonizzanti a terra,confessai a capo chino la piena responsabilità dei fatti.

Che confusione sto facendo!

Rischio di non farVi capire più un tubo, ma che importa?

Forse tra una ventina d’anni i miei figli leggeranno il messaggio di una vita affidato alla bottiglia dei ricordi e conosceranno un po’ meglio questo loro padre noioso e brontolone che deve sempre dirgli cosa fare e cosa non fare , cosa dire e cosa non dire.  Vu! Vu!” mi chiamano ed hanno ragione , il solito antico rituale dell’esistenza si ripete ciclicamente. anche l’uomo più moderno apparirà sempre “vecchio” a chi gli succederà. “Sono un minorenne anziano” diceva il grande Totò.

Come potrei dimenticare il primo giorno di scuola?

Scendemmo in strada di buon mattino,ma prima papà immortalò l'avvenimento con una serie di foto sul balcone del salotto.

Aurora impeccabile  nel suo grembiulino bianco , fiocco azzurro e gonnellino corto, il sottoscritto  pareva il suo negativo, grembiule celeste, fiocco bianco malamente annodato, pantaloncini a giro collo ed un noiosissimo colletto rigido, che impediva  il libero movimento della testa e con un fastidioso sfrigolio causava  dolorosissime ustioni al tenero collo di un povero bambino già piuttosto stranito per l’alzataccia  e la costrizione ad un’anomala strigliata a fondo per la speciale occasione.

Dopo il dettagliato servizio fotografico ci mettemmo sulle spalle le cartelle nuove fiammanti nelle quali mamma aveva infilato la merenda per la ricreazione e montammo in auto con i nostri genitori verso la nuova avventura.

La scuola m’apparve subito sinistra, un cupo istituto religioso, un agghiacciante edificio  popolato da figure inquietanti,nere come la morte.

Varcata col batticuore la soglia dell’aula la prima sensazione  fu di autentico terrore! Quei corvacci  che giravano per i corridoi sempre due a due come i carabinieri  mi mettevano addosso una paura d’inferno.

Il buon giorno si vide dal mattino.

Pochi giorni dopo le arcigne insegnanti rconvocarono i miei e senza inutili preamboli comunicarono la dura ma inevitabile sentenza ,la femminuccia avrebbe potuto proseguire gli studi ma per me “non era cosa”.

La decisione non mi dispiaceva , anzi , ma che esagerazione!

In fondo la ragguardevole quantità d’inchiostro applicata diligentemente in ugual misura su ambedue le  mani , su  quell’odioso collare bianco e sul grembiulino celeste , i gessetti spalmati nelle tasche scucite o il fiocco che penzolava fino a trascinarsi sotto le scarpe slacciate,non potevano giustificare il mio prematuro allontanamento a scopo precauzionale dall’Istituto, ero un buon elemento in fondo ,un bravo e rispettoso scolaro ma avevo solo cinque anni,come potevo farmi capire da quelle antipatiche suore? Oltretutto inglesi!

L’anno seguente constatata la mia evidente insofferenza per una formazione scolastica di tipo religioso, i miei optarono per l’iscrizione ad un istituto d’istruzione pubblica ,la scuola elementare “Contardo Ferrini”.

Docenti più comprensivi e meno esigenti sostituirono le spaventose monache anglosassoni, il profitto scolastico non mutò granché  ma l’approccio con la scuola fu meno devastante per la mia fragile personalità, per dirla tutta , in sostanza , se la voglia di studiare restava pochina il nuovo ambiente si presentava  perlomeno un po’ più confortevole.

L’aula scolastica conservava lo sgradevole odore  di gesso e l’aspetto spettrale della precedente , ma se non altro quel grande giardino esterno  rendeva meno desolante la prospettiva di proseguire gli studi per cinque lunghissimi anni. 

All’uscita poi m’aspettava,  ben ritagliato e opportunamente incollato all’angolo tra via Valnerina e via di Villa Chigi ,  l’omino delle olive e dei lupini con i suoi cesti pieni d’ogni grazia di Dio , sopra la sua figura immobile  svettava il denso fogliame della misteriosa parte ancora chiusa al pubblico del parco, attorno , proveniente dalla stessa villa , quel caratteristico odore d’erba falciata.  

Nel laboratorio di musica imparai a riconoscere i simboli musicali grazie all’ingombrante idrofono , una fila di sette bottiglie poste l’una accanto all’altra , ognuna con la giusta quantità d’acqua , che carezzate  da  un colpetto di cucchiaino emettevano il suono argentino di una determinata nota .  Ero un vero maestro , lo testimonia l’ottimo voto  in disegno, recitazione e canto, unico otto in una selva intricata di sei stiracchiati, se si sorvola sul sette in attività manuali e pratiche – che non sono quelle che potreste pensare voi – e sull’ormai rituale  nove in condotta.

La maestra Buscemi m’insegnò durante i primi due anni a tenere decentemente in mano una penna mostrandomi la differenza tra questa e una vanga , a disegnare le prime stanghette, a scrivere le prime vocali e a balbettare le  prime elementari frasi sui libri di testo.

Trascorrevo lunghe ore a braccia conserte all’interno della grande aula affacciata su Villa Chigi  , ora ascoltando barbose lezioni,  ora esercitandomi a scrivere e far di conto , con la segreta speranza   di poter uscire di tanto in tanto con i miei compagni per giocare a ruba bandiera o ai quattro cantoni tra gli alti pini del boschetto della scuola.

L’anno successivo venimmo affidati al laconico maestro Favara, originale archetipo d’insegnante. Arrivava con la sua Dauphine grigio topo ed appena entrato in aula disponeva diligentemente sulla cattedra la sua borsa di pelle, ne estraeva con un minuzioso cerimoniale il quotidiano ed un sacchetto con un paio di cornetti, effettuato l’appello ordinava al capoclasse - ovviamente interpretato da Franco - di scrivere alcune frasi alla lavagna. Il nostro compito era quello di scomporle in sillabe, poi stendeva il giornale sulla cattedra apriva il cartoccio e cominciava a leggere e a divorare quei croccanti croissant. Immancabilmente ogni giorno finiva per appisolarsi fino a sprofondare in un sonno profondo , solo il molesto suono della campanella che annunciava la ricreazione lo scuoteva da quel tranquillo letargo.

In quinta elementare si presentò in classe il maestro Pomponi che con infinita pazienza e lodevole abnegazione tentò d’insegnarmi i primi essenziali rudimenti d’aritmetica senza peraltro mai riuscirci.

Io e l’ostica materia iniziammo una singolare gara dalla quale uscii fatalmente sconfitto e con le ossa rotte  , da allora continuammo a litigare non arrivando mai ad un onorevole trattato di pace  se è vero come è tristemente vero che ,alla veneranda età di quarantasei anni, non sono ancora in grado di risolvere una divisione a due cifre. Non parliamo delle virgole poi che sono per me oggetti non meglio identificati che galleggiano negli spazi siderali di quello sconfinato e incomprensibile buco nero che ha le orribili  fattezze  della matematica.

La votazione ottenuta nell’anno scolastico 1967/68,  presso la scuola Contardo Ferrini di via di Villa Chigi 22 , al conseguimento della licenza di quinta elementare mostra chiaramente quale poteva essere il mio profitto all’epoca:

 

 

 

Religione

Sette

Comportamento ed educazione morale e civile

Nove

Educazione fisica

Sei

Lingua straniera

Sei

Aritmetica

Sei

Geometria

Sei

Storia e Geografia

Sei

Scienze

Sei

Disegno recitazione e canto

Otto

Attività manuali e pratiche

Sette

 

 

La scuola comunque non era solo l’ apprensione per gli  scappellotti del maestro Favara e l’incubo delle quattro operazioni,era anche l’occasione per uscire più spesso di casa e per conoscere nuovi amici come Ruggeri e Ravaioli , caratteristici esemplari di homo secchione, in grado di allungare la lingua dal primo banco fino a lambire la cattedra, il commovente Coco che prima di entrare in aula doveva aiutare il padre nel lavoro e finiva inevitabilmente per addormentarsi in classe – roba da libro cuore – il prepotente Filosa,  il primo con cui venni alle mani e mi gonfiò come una zampogna , Carlucci , altro ceffo da galera che cercò di mandarmi in ospedale e  ancora Piccioni, Cacchio, Coscarella e tanti altri di cui non ricordo che il nome poi naturalmente c’era Franco Giuffrida , l’amico del cuore.

Il primo giorno di scuola venne accompagnato dal papà che gli chiese dove volesse sedersi, si guardò un istante intorno poi indicò senza tentennamenti il posto vuoto accanto al mio.

Il primo banco lo si predilige solitamente per due ragioni ben precise, o perché si è particolarmente bravi quindi desiderosi di farsi notare dal maestro che ci osserva dal suo piedistallo, per mostrare quel che si vale, ed era il motivo della scelta del mio compagno,o perché si è ciechi come una talpa e da quella distanza si intuiscono perlomeno i contorni della lavagna e questo era il mio caso.

In quella panca di legno nera come la pece, con quel buco al centro che mi divertivo ad imbottire di cartacce, sede storica del superato calamaio da poco rimpiazzato dalla più pratica penna biro, nacque giorno dopo giorno una sincera e solida amicizia che solo vent’anni dopo cominciò a scricchiolare stritolata dalle  imprevedibili combinazioni della vita.

Insieme vivemmo le più importanti esperienze di bambini prima e di ragazzi poi, amici inseparabili superammo i primi ostacoli della adolescenza, uniti trascorremmo gli anni migliori a scherzare, ridere e giocare. Quanti calci al pallone, quante gioie e delusioni d’amore confidate l’uno all’altro, quanti magici momenti condivisi.

Frequentavamo gli stessi amici, le medesime comitive , sognavamo amori eterni, finché trovammo la ragazza giusta e le nostre strade, fino a quel momento perfettamente parallele, necessariamente si separarono.

Se a scuola annaspavo  e , scolaro mediocre, faticavo non poco a tenere il passo dei miei compagni , migliore  era il mio rendimento in parrocchia nell’apprendimento della  dottrina cristiana .

I miei ricordi religiosi cominciano a districarsi verso l’età dei sei anni, educato da una madre scrupolosamente osservante che cercava d’istillarmi il gusto della cristianità , non mi fu concesso scegliere  e la religiosità passò naturalmente dal suo seno al mio. 

Verso le sei del pomeriggio , specialmente nel periodo che va da ottobre a marzo , dopo aver convenientemente svolto  i compiti assegnatimi   dagli spietati  maestri per il giorno seguente  – non prendete le cose sempre così sul serio, è solo un modo di dire – mi recavo con mamma in parrocchia per ascoltare la messa serale e, ciondolando tra l’inginocchiatoio e il banco ,  seguivo rapito i gesti rituali del sacerdote sostenendo senza apparente sforzo  prima l’interminabile rosario poi la breve funzione vespertina. Piacevolmente inebriato dall’intenso profumo dell’incenso e delle candele accese  osservavo incantato la lunga teoria dei dipinti della via crucis che conducevano lo sguardo verso l’altare e il grande Crocifisso collocato accanto alla sagrestia , presso il quale sostavano in preghiera i fedeli curvi a baciare i piedi del Cristo morente. Suggestionato dalla sacralità di quell’ambiente finii per confidare alle mie sbalordite insegnanti di catechismo il mio incontenibile desiderio di sacerdozio.

Mi resi tuttavia conto che si trattava in realtà di un’infatuazione passeggera  non appena, nello sciorinare il lungo elenco delle rinunce necessarie alla vita pastorale, accennarono all’obbligo del celibato. A quel punto la mia vocazione  svanì come neve al sole , del resto non avevo ancora capito bene la sostanziale differenza   tra celibato e castità, e la mia fede cominciò a vacillare senza tuttavia mai spegnersi completamente, un credo insomma vissuto con profonda intensità e ferma intransigenza in un primo momento, con accenti decisamente personali e sfumature sempre più vaporose col passare del tempo.