CAPITOLO 13

 

 

Ladispoli


 

 

 

 

proposito delle vacanze  in camping cui ho accennato poco sopra permettetemi una breve divagazione sul tema, per farlo dovrò costringervi mio malgrado ad un nuovo piccolo passo indietro.

Un animale stanziale come me  non era fatto per vivere simili esperienze, tuttavia mi lasciai convincere dagli amici alternativi , era il lontano 1974 , a provare l’avventurosa vita degli uomini rudi. Acquistai una canadese – si tratta di una spartana tenda a due posti , non di una seducente femmina del nord america - a porta portese ed insieme alla mia compagna d’allora, l’anticonformista Marina , zaino in spalla e adidas ai piedi , partii alla volta di Vieste .

Una notte , mentre si limonava in tenda, si scatenò un  temporale  infernale, tuoni, fulmini e saette – se no che cazzo di temporale sarebbe stato ? –  i paletti piantati dal sottoscritto in maniera a dir poco approssimativa cedettero di schianto e la tenda ci crollò addosso trasformandoci in una confezione di alimenti da supermarket  , ci rivestimmo alla meglio e inzuppati come sardine – avete mai visto una sardina asciutta? – filammo verso i cessi del campeggio , unica costruzione in muratura nei dintorni, per trascorrerci il resto di quella tragica notte da lupi.

A quel periodo, proprio durante quella drammatica vacanza,   risale l’unico mio timido tentativo d’espatrio, bizzarria oltretutto miseramente fallita .

Dopo il rodaggio  pugliese piegammo i resti  della tenda, li infilammo nello zaino e proseguimmo il nostro viaggio verso i monti del Trentino , destinazione un piccolo lago nei dintorni di Bressanone, l’Austria era a due passi, non c’era  occasione migliore per sbirciare fuori dai confini nazionali. Così un caldo pomeriggio d’agosto montammo su un affollato pullman per turisti sfigati e ci dirigemmo verso la cittadina austriaca, non avevamo però fatto i conti con la polizia di confine che alla dogana si mise a controllare i nostri documenti.  Il mio non era in ordine , carta d’identità non valida per l’espatrio, il truce aspetto da terrorista in libera uscita non deponeva certo a mio favore, fui invitato a scendere per tornare in patria, ci mollarono lungo l’autostrada, con me l’intero gruppo d’amici  che non me la perdonò fino a vacanze finite.

Conclusa la rapida digressione torniamo ora ad occuparci delle circostanze che modificarono le mie abitudini di pigro villeggiante di montagna costringendomi a riporre il maglione pesante nel cassetto del comò per indossare un imbarazzante, scomodo ed attillatissimo costumino azzurro, succinto indumento che , per la gioia degli occhi delle peccaminose bagnanti delle coste tirreniche , metteva  in   risalto  le mie non comuni forme anatomiche delle basse vie  ma era  implacabilmente e dannatamente scomodo.

Bleah! Che schifo. Mi sono messo la penna in bocca dalla parte sbagliata.

Era un afoso sabato pomeriggio di luglio quando la frizzante morosa mi propose di andare a trovare il fratello,  in ferie con la sua famigliola,  a Ladispoli  dove i genitori avevano acquistato qualche anno prima un grazioso appartamentino due camere, servizi e ampio balcone.

Il mattino seguente ,vistosa T-shirt acquamarina attillata ad esaltare l’atletica figura, comodi e impalpabili jeans,  adidas calzate pericolosamente senza pedalini  ,berretto stampo Capitan Findus e immancabili rayban alla Top-Gun, mi presentai verso le otto alla guida della scintillante Mini Clubman color nocciola, targa Roma T03698, prestatami per l’occasione da un preoccupatissimo Paolo, in via dei Foscari dove m’aspettava  la mia impaziente compagna di viaggio. Pochi minuti dopo imboccammo l’Olimpica sotto una canicola infernale nonostante avessimo scelto le prime ore del giorno e, dopo un’estenuante coda sulla statale Aurelia ,la prima di una lunga serie, e un paio di allucinanti ore di viaggio, parcheggiammo l’auto esausta sotto la residenza estiva della famiglia Liotta nella ridente - che c’avranno poi sempre da ride’  ste “amene” località di villeggiatura -  cittadina laziale adagiata sulle rive del mare nostrum.

Già, proprio così, ero riuscito ad ottenere finalmente la sospirata patente, era stata dura ma infine la perseverante costanza e la ferrea volontà erano riuscite ad avere la meglio su quella che era una mia evidente incapacità alla conduzione di un veicolo che avesse più di due ruote.  A questo proposito concedetemi una breve divagazione, torneremo più avanti a sbirciare tra le imposte di via Spoleto socchiuse per l’insopportabile calura.

La Vespetta che ero riuscito a farmi comprare , mettendo in croce il facoltoso genitore ,quando la malconcia marmitta del povero Ben aveva esalato l’ultimo puzzolente respiro, come annotato qualche pagina indietro, non rispondeva più alle mutate esigenze della nuova vita di coppia,ma conseguire la licenza di guida non sarebbe stata certamente impresa da poco per chi già da bambino nel tentativo di imbroccare la porta della stanzetta centrava in pieno il telaio della medesima facendo tremare le fondamenta dell’ imponente palazzo edificato accanto alle rive dell’Aniene e rabbrividire gli inquilini dello stesso, ero conscio che l’accentuata miopia avrebbe reso lo sforzo quasi certamente vano.

Gia qualche anno prima , subito dopo il diploma, istigato all’ imprudenza dalla mia giovane età  avevo tentato di raggiungere l’ improbabile traguardo  e , visto che ero stato raccomandato, pratica di routine a quei tempi,  m’avevano trombato per ben due volte all’esame di pratica, insistere non era mai stato il mio forte così avevo lasciato perdere ,in fondo non me ne poteva frega’ de meno.

Questa volta però, anche per le “disinteressate” pressioni psicologiche del futuro suocero che aveva immobilizzato la sua Fiat 127 carta da zucchero nel parcheggio sotto casa disegnandone la sagoma in maniera ormai indelebile sull’asfalto, fui costretto a riprovarci.

Alla visita oculistica barai in maniera dissennata presentandomi munito di lenti a contatto senza confessarlo all’esaminatore il quale, nonostante tutto , mi prescrisse l’obbligo di lenti !?  Se solo si fosse reso conto che già le portavo m’avrebbe prescritto con tutta probabilità direttamente il cane.

Questa volta superai la prova senza difficoltà, quasi certamente grazie all’assenza di mediazioni,  e il doloroso dramma dell’incomunicabilità tra il sottoscritto e il volante ebbe finalmente termine un livido mattino di dicembre – il 6 per l’esattezza -  dell’anno Domini 1979.

Ok! Adesso possiamo tornare al mare a mostrar le chiappe chiare.

Venne ad aprirci una sorta di Bud Spencer taglia XXL madido di sudore come una monaca sotto il sole di ferragosto, era Rosario , il fratello di Lety, un folto barbone nero circondato da qualche chilogrammo in eccesso. Faccione sorridente,  due piccole fessure al posto degli occhi e un paio di calzoncini,si fa per dire, giropanza che  tentavano inutilmente di trattenere lo strabordare di un gigantesco cocomero che poteva vagamente somigliare ad uno stomaco con ernia iatale ai massimi storici.

Attorno all’energumeno starnazzavano due ochette schizzate , le figlie Micaela e Giordana, mentre in cucina ci aspettavano la mogliettina  Franca e, come al solito , intenta a preparare il pranzo e a sbuffare come una vaporiera tra pile e fornelli  , donna Livia .

Su quel magnifico balcone  a due passi dal mare – non avrò pace finché non sarà mio – le consuete foto di rito per la stampa , jeans celesti, maglia leggera a righe grigie , rosse e blu,  sponsorizzata da Antonio Cabrini, per me , vestitino di cotone bianco con ampio colletto trapuntato ed elegante girocollo in oro per lei che aveva appena accorciato i capelli sfoggiando una moderna acconciatura sbarazzina , allora molto in voga, alla Lady Diana.  

Il primo incontro con la cucina di casa Liotta si rivelò infausto, di fronte ai miei occhi inorriditi fumava un nauseabondo piatto di pasta al tonno, l’unica pietanza che non avrei mai voluto trovarmi davanti, ma così va il mondo.

Fortunatamente la sagace suocera comprese immediatamente,  dal mio sbatter nervoso di denti sulla forchetta pencolante , il dramma che stavo vivendo e  rimosse pietosa la pastasciutta da sotto il mio naso sostituendola con un paio di impressionanti fettine panate che sbranai in poco meno di cinque minuti per far posto alle successive, da quel giorno cominciai lentamente ma inesorabilmente ad ingrassare passando con disinvoltura dalla 46 alla 50.

Sario faceva venir fame solo a guardarlo e la futura suocera non era da meno, per lei la sublime arte culinaria non aveva segreti… o quasi, il suo brodo in verità risultava alquanto delicato , per usare un eufemismo, ma a questo rimediava don Antonino maestro degli involtini al sugo e, appunto, del consommè. Indimenticabile tra le mie saporite rimembranze gastronomiche quello, impreziosito dai tortellini rigonfi di carne della sora Wanda, del primo capodanno trascorso a brindare attorno alla tavola imbandita per le feste in via dei Foscari 10, potrebbe provare forse a sbiadirne la memoria soltanto il gustoso pesce arrosto divorato, ospite dei chiassosi parenti calabresi della futura first lady, l’estate successiva in quel di Palmi, residenza della florida sorellona Marilena e del serafico cognato Mimmo.

Già il nostro primo viaggio insieme : un comodo divano color nocciola in salotto per scambiarsi coccole e carezze  , un ampio terrazzino esterno con sedie e tavolino arancio per godersi il fresco della sera , né ci faremo mancare le emozioni di una piacevole gita in traghetto fino a Taormina . 

Proviamo ora a tirar via un po’ della polvere che si è posata sugli scaffali della memoria e riprendiamo a tessere la trama di questa delirante biografia, mancano troppi tasselli per sperare di  ricomporre l’intero puzzle, accontentiamoci del confuso guazzabuglio di schegge impazzite che affollano la testa di un povero vecchio schermata dal trascorrere del tempo.

Decisamente verboso, lo confesso, ma la vena poetica che l’immagine racchiude è  indiscutibile. O no?

Correva l’anno del Signore 1980, ero andato in fissa per la Ford Fiesta, cominciai a tappezzare le pareti dell’ampio appartamento affacciato sul viadotto delle Valli con colossali cartelloni magnificanti l’ agognata utilitaria,  il più grande  dei quali, incollato accanto alla porta dello studio, incombeva agghiacciante sulla coscienza del pensionato di fresca data scandendo un lapidario “O Fiesta o morte!”.

Sul fondo bianco del pesante cartoncino Bristol si stagliava un dettagliato disegno dell’amata, accanto ad esso, appiccicata alla buona con lo scotch, una rivoltella giocattolo, ultimo ludico retaggio di giorni remoti, lasciava presagire il dramma che incombeva tra quelle pareti domestiche laddove il sogno fosse rimasto tale. Un ruvido ritratto del sottoscritto ,capelli arruffati, sorriso schizzato , barba lunga,occhi persi nel vuoto, completava la visionaria opera del farneticante artista che risentiva indubbiamente dello stile asciutto e teatrale delle Brigate Rosse stampato sulle drammatiche foto spedite ai quotidiani che ritraevano le loro vittime prima delle macabre esecuzioni replicate fino a  qualche anno prima.

Il messaggio lanciato al baldo genitore sulla mia irrefrenabile voglia di Fiesta era piuttosto chiaro ma ad evitare fastidiosi malintesi mi preoccupai di sistemare biglietti,  comunicati e volantini nei posti più impensati della casa ma soprattutto li collocai nei punti chiave , tra le cartelline delle polizze, nei cassetti della scrivania, nel comodino accanto al lettone dove riponeva ogni sera gli occhiali,sotto al suo cuscino e persino sul parabrezza dell’automobile. Non dimenticai per un paio di settimane di alzarmi presto al mattino per incastrare annunci epigrafici tra le applique che incorniciavano lo  specchio del bagno prima che il mattiniero capo famiglia provvedesse al quotidiano rito della rasatura.

Alla fine il poveruomo, con le  palle a pezzi, capitolò, era un freddo mattino del maggio 1980, il 31 per l’esattezza ,l’aria era limpida il cielo azzurro,ci recammo presso la Consorti auto di largo  Lanciani per l’acquisto dell’oggetto dei miei desideri.

Era lì ad aspettarmi,  colore  bianco neve , carrozzeria sfavillante, tappezzeria  zebrata a piccoli rombi, cromature scintillanti, accessoriata con l’indispensabile autoradio Philips formato A4, sorriso accattivante, anno di costruzione 1978, modello 950 L , targa Roma U23204, costo tremilionicentomila, quello stesso pomeriggio la portai a far conoscenza alla mia bella.

Non le avevo detto nulla, l’andai a prendere come ogni pomeriggio, parcheggiai poco distante e mi recai in via dei Foscari per citofonarle, la vidi uscire dal portone e venirmi incontro, sembrava più bella del solito , la presi per mano e c’incamminammo verso via Scarmiglia.

Dove hai messo la macchina?” mi chiese, “Qua dietro” risposi, voltai l’angolo e mi fermai accanto alla mia nuova auto , le aprì la portiera  - un tempo ero un amabile cavaliere-   mi fissò perplessa, quasi esitante, poi con uno dei suoi magici sorrisi chinò il capo per scivolare all’interno dell’abitacolo, scostò la gonna per non sgualcire le pieghe e montò in macchina.

Accompagnai quelle sinuose evoluzioni con uno sguardo tra l’ebete e il compiaciuto infine,  in un impeto di galanteria allora abituale – non me l’aveva ancora data -   chiusi delicatamente il suo sportello,improvvisai una danza di sapore vagamente orientale attorno a quelle luccicanti lamiere infuocate dal sole di marzo per raggiungere il posto di guida , dischiusi lentamente la mia portiera, balzai al volante ed inserita la chiave la girai lentamente per ascoltare il corroborante rombo del motore .

Cazzo!  Mi piace “corroborante rombo” è onomatopeico! Sì,lo so che “corroborante” non c’entra un poco prima menzionato con il motore,  ma vuoi mettere come rende l’idea?

Mi voltai di nuovo verso la sorpresa passeggera, abbozzai un’espressione ancor più idiota, se possibile, poi ,indirizzato ancora una volta lo sguardo fermo verso l’asfalto della strada,ingranai la prima,calai i rayban sugli occhi e con un deciso colpo d’ acceleratore filai via verso nuove elettrizzanti avventure.

Forse ho enfatizzato oltremodo la vicenda, non lo nascondo, non si trattava certo di un Testarossa ,una cosa è però certa: da quel giorno ci sottraemmo per sempre al concreto pericolo d’ incastrarci senza via di scampo,come rievocato qualche macchia d’inchiostro più indietro, tra il lunotto posteriore  e il cruscotto del vermiglio Fiat Cinquecento, inospitale predecessore a quattro ruote, durante i nostri impetuosi accoppiamenti sotto i palazzoni di via Makallè o all’ombra dei pini di Forte Antenne.

Attraversavo in quel periodo un particolare stato d’animo, desideravo soltanto conquistare la gente, in una sorta di delirio buonista smussavo gli angoli più spigolosi servendomi di compromessi, il più delle volte irrazionali, pur di compiacere gli altri.

Completamente fuori di testa adeguavo le mie esigenze a quelle altrui sempre e comunque, un vero massacro d’altruismo vittima sacrificabile alle esigenze di genitori, fratelli ed amici.

Potete figurarvi in tale stato confusionale quel che fui capace di combinare con la mia nuova partner. Memore di quel che m’era accaduto qualche anno prima con Marina accondiscesi ad ogni suo sordido desiderio, sottostai ad ogni  sua smodata pretesa cercando costantemente d’accontentarla in ogni caso e circostanza.  D’altronde  quel  suo sorriso delizioso e quel vestitino autunnale color senape con l’ ampia scollatura  a Vu che lasciava intravedere una  mammellata   di prim’ordine   non mi lasciavano scampo.

Fortunatamente durò poco ma in quel breve lasso  di tempo feci abbastanza danni da pagarne le conseguenze per il resto dei miei giorni. La prima cazzata l’avevo fatta a ventiquattrore appena dall’inizio della nostra relazione.

Per anni avevo desiderato una giacca di renna a frange alla Buffalo Bill ma ,che volete, un po’ per pigrizia ma soprattutto per mancanza congenita di grana ne avevo rimandato sine die il sospirato acquisto.

Con il consueto tempismo che caratterizzava già ad allora la mia vita e continuerà a cadenzare i miei giorni futuri , mi decisi all’incauto passo poche settimane prima del fatidico incontro che avrebbe cambiato il corso degli eventi .

Dopo aver fracassato con una secca martellata il salvadanaio di terracotta inzeppato di carte da diecimila  faticosamente guadagnate seduto alla scrivania di Piazza Maresciallo Diaz,  sforzando i miei occhietti da talpa nell’incerto chiarore dell’alba la domenica mattina a contar schedine e alla fioca , intermittente luce  delle lampade al neon il lunedì pomeriggio a spuntar colonne - De Amicis me fa ‘na sega! -   lo saccheggiai avidamente riuscendo,  monetina dopo monetina ,  a racimolare la somma necessaria per recarmi a via Sagno e regalarmi l’agognato indumento.

Da allora non l’avevo più sfilata…sì lo so che gli indumenti ogni tanto andrebbero lavati, ma l’ ho già detto , non amo ripetermi, la pulizia allora non era il mio forte, ero il ritratto di un clochard di periferia ed emanavo il caratteristico fetore di un vibrione andato a male.

Nel giro di un paio di settimane la mia nuova padrona , oltre a spedirmi dal barbiere,   riuscì a farmi lavare indicandomi come raggiungere con il sapone - sarebbe stata forse più indicata la candeggina - i punti più reconditi del mio corpo , luoghi misteriosi di cui ignoravo persino l’esistenza che, all’ umido passaggio della spugna ,sbalordirono rabbrividendo per quella nuova imprevedibile esperienza,ma,quel che è peggio, mi convinse a tagliar via le frange alla mia nuova e sudicia giacca usata . Non state lì a sottilizzare era “nuova” perché appena acquistata,”usata” perché di seconda mano, anzi di ascella .

Con quelle stesse forbici recisi allo stesso tempo, non tardai a rendermene conto,anche le mie palle sudaticce.

Oddio! Non che fino a quel giorno avessi mostrato un carattere particolarmente indomito e battagliero  alla Tex Willer ma è certo che il gran rifiuto mi avrebbe consentito un’esistenza più tranquilla, per tutti però ero “tanto bono”, come si dice dei coglioni ,niente di nuovo sotto il sole, ero fatto così, d’indole mansueta e carattere accomodante co’ l’occhi dorci da cane bastonato.

Oggi ,con qualche primavera in più sul groppone, almeno in parte sono riuscito a cambiare avvicinandomi al temperamento non dico del mitico ranger del Texas ma perlomeno a quello del suo canuto e saggio pard Kit Carson e, francamente, campo decisamente meglio.

Prese vita in quei giorni un  nuovo lavoro saltatomi fuori di penna chissà come , la delirante Storia a fumetti da me scritta, disegnata e impaginata.  Si trattava di una mia assolutamente personale  e supponente rivisitazione per immagini della storia del mondo.

Questa la breve prefazione che ne descrive il contenuto, se volete leggere il resto  troverete il volumetto, rosso vermiglio,  da qualche parte tra i ripiani nella libreria.

Questa “Storia Fumetti” è un tipico prodotto di una mente contorta e quanto mai malaticcia.

Narra gli avvenimenti che vanno dalla cosiddetta – da chi poi – Rivoluzione industriale ai primi moti insurrezionali mazziniani.

Oltre a non seguire un ordine razionale e chiaro, potrete trovare in questa opera una gran varietà di schifezze, errori di grammatica e mediocrità che fanno di questa mia “Storia a fumetti” quanto di peggio possa offrire oggi la produzione in materia.

Mi scuso con il prof. Rosario Villari per aver scopiazzato ignobilmente il suo testo di “Storia Contemporanea “e , invitandovi a non leggere questa mia creazione,  vi ricordo che solo una mente geniale avrebbe potuto darvi tanto.

Dimenticati i testi e i volumi universitari nella libreria li lasciai per sempre lì dove si trovano ancor oggi ad ingiallire e prender polvere insieme ai volumi della mitica enciclopedia Conoscere e ai dizionario di latino e greco e abbandonai definitivamente gli studi per cercare un impiego e metter su famiglia.

Non era una faccenda semplice, il lavoro in Italia scarseggiava già da anni, i primi manager del cazzo erano germogliati tra lo sterco da loro stessi accumulato per anni nel sottobosco impiegatizio di ministeri,enti locali e società private . Dopo aver immagazzinato per anni ricchezze d’ogni sorta e sperperato i soldi degli altri avevano deciso di chiudere i rubinetti del benessere sbattendo la porta in faccia ai nuovi arrivati,chi ha dato ha dato chi ha avuto ha avuto, scordammose ‘o passato e buonanotte al secchio.

Tentai anche la carta dell’informatica iscrivendomi nel dicembre 1979 ad un corso di software presso la Programat di via Asmara 50/A,  ma dopo un brillante esordio mollai tutto , come al solito,  a due passi dal traguardo  e papà,  nell’ottobre 1980,  per permettermi di  abbandonare le lezioni anzitempo, fu costretto a pagare all’ azienda una penale piuttosto salata. 

Arrivò così l’11 novembre, un giorno molto triste per la mia famiglia,  quella sera , al ritorno a casa,  non trovai mio padre  ed    appresi da mamma la dolorosa notizia che la cara zia Mimma , investita da un pirata della strada,  era stata ricoverata in condizioni disperate  all’ospedale San Giovanni , papà  naturalmente era subito corso al capezzale della sorella.

Per ricordare quel tragico episodio preferisco affidarmi al racconto di mia cugina Giuliana che , appena ventenne e in stato interessante ,  visse purtroppo quei terribili  momenti in prima persona.

Maria Romana Tiddi, mia madre, è stata investita l'11 Novembre del  1980 sulla via Anagnina di fronte alla Via Bellicia dove era la nostra casa paterna . 

Ero incinta di sette mesi e tornavo da una visita , notai un assembramento di persone e una donna a terra , volevo fermarmi per vedere  cosa fosse accaduto  e chi era quella donna, ma dalla sua macchina scese mio marito  Olimpio e mi disse che non era nessuno che conoscevamo -  non ho mai saputo se lo fece  per non farmi soffrire oppure se realmente non ha riconosciuto la povera mamma che era trasfigurata dalle enormi ferite. Arrivata a casa incontrai mio padre che aveva saputo in quel momento dell'incidente , siamo così  usciti insieme da casa,  nel frattempo è arrivata l'ambulanza che ha portato mamma all'ospedale San Giovanni già in coma. Le sue condizioni erano disperate e dopo tre giorni, nei quali tutti speriamo non abbia sofferto,  è spirata. 

Io , forse perché aspettavo un bambino ,  per molti anni ho sopportato il grande dolore con una certa  tranquillità, Virgilio d'altronde sembra proprio sia stato un meraviglioso regalo lasciatomi da Dio per avermi levato la mamma a 20 anni ed incinta del primo figlio.  Dopo circa 10 anni però ho avuto un brutto esaurimento nervoso e sono stata ricoverata in una clinica , nel 1990 ne sono uscita e mi hanno spiegato che proprio  la tragica morte di mia madre ne era stata la causa , infatti continuavo nel sonno a ripetere una frase rivolta a mio marito  "te lo avevo detto!",   non finivo mai queste parole.  Solo dopo l'uscita dall'esaurimento ho saputo la conclusione,  volevo dire "te lo avevo detto che quella donna a terra era mia madre!!" Ora sono serena e grazie a te mi sono resa conto che posso raccontare questo tragico episodio della mia vita abbastanza tranquillamente.

La ditta di famiglia dove prestavo ad intermittenza  la mia opera era l’unica alternativa alla cronica mancanza di lavoro, me ne rendevo conto, per ora nicchiavo in attesa di tempi migliori ma sapevo già che  quella sarebbe stata la mia occupazione per il resto della vita.

La professione del rampante assicuratore di successo, archetipo di una precarietà irreversibile , modulando incessante  la cantilena del carpe diem avrebbe accompagnato polizza dopo polizza, sinistro dopo sinistro l’incerto incedere dei miei passi nel mondo del lavoro.

Cazzo! Mi vien da piangere. 

Paro Rambo!

 Ricordate?

 John come vivrai?”

 E lui :

 Giorno per giorno…”

Mah! In fondo era un gran cazzaro , ha scippato la battuta a Rossella O’Hara.

Tentai i mestieri più diversi  senza tuttavia accantonare il Toto che mi assicurava come minimo il pieno di benzina per una settimana.

Dapprima indossai il grembiule da garzone nel retrobottega del panificio del Sor Viola in via Lago Tana -  tanto per non perdere l’abitudine  oggi al suo posto hanno aperto un istituto di credito con tanto di euro lavatrici . Durò poco, un paio di lavaggi di cesso -  traboccava  merda come piovesse - una decina di consegne di pesanti casse di Ferrarelle a vecchiette divorate dalla sete e dall’avarizia – una mancia neanche ad estorcergliela con pistola e  passamontagna  - poi mi disintegrai le palle  e tolsi il disturbo.

Mi trasferii per qualche mese poco lontano , in via Tigrè, ad attaccare bollini sulle schedine e sui sogni degli avventori della tabaccheria  dei fratelli Ceci poi il campionato finì e con lui la mia nuova attività.

Persa quella mano tornai in pista, anzi, in mezzo alla strada a vendere enciclopedie ai passanti e alle massaie del centro storico,con scarsa fortuna in verità, per ovvi motivi.

Come tanti miei coetanei tornai al collocamento e tentai la carta dei concorsi pubblici, di solito una decina di posti a disposizione per una vagonata di qualche migliaio di candidati, non ero orfano, non ero invalido e capii subito che non era aria.

Le residue speranze di mio padre di farmi assumere all’Assiolimpia grazie alla mediazione dell’amico Lerda - ribattezzato in tale circostanza  Merda - s’infransero, dopo mesi di snervante anticamera negli eleganti corridoi di via Savoia,  contro  la politica di riduzione del personale messa in atto dell’azienda che poco tempo dopo fallì miseramente.

Dovetti attendere il 17 marzo 1981 per trovare un impiego appena più stabile negli uffici dell’Enasco – Ente nazionale di assistenza sociale per gli esercenti attività commerciali - di piazza G.G. Belli 2 ma prima di affrontare l’argomento sfogliamo ancora qualche pagina di storia .