Capitolo 11
Gabriele intanto era
arrivato in vista di Tagliacozzo ,e dopo aver disceso una delle numerose
sinuose stradine che dalle pendici del
monte Aurunzo scendono verso il centro del borgo marsicano, aveva raggiunto la
piazza del mercato circondata da basse e semplici costruzioni in muratura
grezza. Al centro svettava il solenne Obelisco che aveva sostituito l'antica
gogna. Nell'attraversare il piazzale transitò accanto alle botteghe degli
artigiani e alle stalle dei pastori poi la strada si fece più spaziosa e,
superato il convento e il palazzo Ducale, raggiunse finalmente la stazione
ferroviaria.
Affrettò il passo, si recò
alla rivendita per acquistare il biglietto, infine salì sulla carrozza di terza classe del treno diretto a Roma.
Aveva con sé una piccola
sacca , all’interno quei pochi abiti scovati nell'armadio che non fossero
proprio da buttare via , un cartoccio con una forma di pane ed una
fiasca d'acqua riempita poco prima lungo la strada alle fresche sorgenti di
Fonti Nina. Tutto il necessario insomma per affrontare il lungo viaggio che
l'avrebbe portato a destinazione.
Il distacco dal suo paese
non gli pesava affatto, era più preoccupato per mamma Lucia, rimasta sola in
quella misera stamberga con i suoi malanni a tirare avanti alla meno peggio
quella vita di stenti.
Il fischio acuto del Capostazione poi un lungo cigolio annunciò
l'inizio del viaggio. Il vagone sussultò e poco dopo il convoglio si staccò dalla banchina per cominciare a macinare
la strada segnata da quella lunga fettuccia di binari che baluginava sotto il
sole ormai alto mentre il finestrino ingoiava il paesaggio circostante.
Cullato da quel gradevole
rollio fissò l'orizzonte alla ricerca, oltre quel vetro, di qualcosa che rompesse l'immutabilità della
campagna e la monotonia dei suoi pensieri.
Seduta di fronte un'anziana
donna, capelli bianchi raccolti a crocchia sopra il capo, ricamava con perizia
il tessuto di un centrino. Aveva lo sguardo stanco e due grandi borse nere
sotto gli occhi , il volto era pallido , scavato da profonde rughe , sotto il
naso adunco le labbra sottili, appena socchiuse, recitavano un muto rosario.
Si leggeva su quel volto la
sofferenza, la desolazione e la miseria nella quale doveva essere vissuta fino
ad allora , eppure si sforzava d'accennare un sorriso ogni qualvolta il
sobbalzo della vettura la costringeva ad interrompere il suo lavoro o quando
scossoni più violenti la obbligavano a
trattenere la pesante valigia , addossata al sedile, che rischiava di rotolare a terra.
Il ragazzo la osservò a
lungo cercando di scoprire dove trovasse la forza di sorridere, pensò a sua
madre, poi tornò a volgere lo sguardo al di là di quel cristallo opaco
dove transitavano in continuazione i
monti, i boschi e i tetti rossi delle case d'Abruzzo.
Quella continua passerella
sfilava sempre uguale sotto i suoi occhi annoiati, di tanto in tanto spuntava
un gregge di pecore che brucava pigramente l'erba ai bordi della ferrovia o una
piccola mandria di cavalli al pascolo.
Dall'erba alta emergeva un
contadino che, piegato sulla schiena ,si sollevava, sfilava il fazzoletto dal
collo per asciugare il sudore e
interrompeva il faticoso lavoro nei campi per assistere al passaggio
della lunga teoria di vagoni. Poco lontano uno spaventapasseri fallito, coperto
di poveri cenci, con l'aiuto di un cappellaccio di paglia tentava inutilmente
di spaventare quegli insaziabili uccellacci
ormai avvezzi alla sua presenza.
Tutto veniva ben presto
divorato dall'incessante procedere del treno.
Ogni tanto , per riprendere
fiato, la motrice arrestava il convoglio presso la stazione di qualche
cittadina accovacciata lungo il percorso, pochi minuti , poi riprendeva la sua lenta marcia.
Il viaggio durò ancora a lungo attraverso il mattino e il pomeriggio di quel giorno interminabile ,
il frastuono e il movimento del convoglio impedivano ogni proposito di riposo.
Quando ebbe termine i raggi del sole al tramonto scintillarono gli ultimi
tocchi di colore sulla strada ferrata.
Lo scenario era arido,
secco, incolore. S'era ormai fatta sera
quando, esausti, i passeggeri riuscirono a scorgere, pallide ed evanescenti, le
luci della stazione Termini avvolta in una densa coltre di nebbia.
Gabriele si sporse dal
finestrino nonostante l'aria fredda gli tagliasse la faccia, sotto i suoi occhi
appena socchiusi , sferzati da un vento
gelido , apparvero uno ad uno i lampioni che si rincorrevano ai margini della
ferrovia, i vagoni passando loro accanto modulavano il fragore in uno scroscio
che pareva ingoiarli.
I fanali della locomotiva
illuminarono i merci abbandonati che languivano sul binario morto accanto ad
una vecchia vaporiera in pensione . Sotto
la pancia del mostro metallico corsero gli ultimi chilometri della strada
ferrata che , non più uniforme, incrociava un intreccio di rotaie cambiando
continuamente direzione, finché, quando il groviglio si fece più intricato ,
apparve un gigantesco viadotto ad archi e,
superato quello, balenarono i
fari di piazza dei Cinquecento.
Ancora qualche centinaio di
metri poi il locomotore rallentò e con un assordante crepitare di freni arrestò
finalmente la sua corsa.
Gabriele prese allora la
bisaccia e si voltò per salutare la sua compagna di viaggio che, ansimante,
tentava di trascinare il pesante bagaglio oltre la soglia dello scompartimento.
"Lasciate, faccio
io!"La rassicurò afferrando la maniglia della valigia.
La donna sollevò lo sguardo.
"Grazie bel giovanotto,
grazie tante!"
Calato il fardello sulla
pensilina l’ aiutò a scendere, con un fischio prolungato attirò l'attenzione di
un facchino e appena quello sopraggiunse la salutò e si diresse verso la testa
del convoglio.
Il marciapiede era gremito
di gente , ovunque si formavano spontaneamente capannelli di uomini e donne che
discutevano animatamente. Per tutti era
la fine di un incubo, la guerra era agli sgoccioli. I volti distesi e
sorridenti di eleganti signore
contrastavano con quelli, stanchi e provati, delle balie che allevavano
i figli degli altri. L'altoparlante intanto gracchiava parole incomprensibili
generando nuova confusione.
Quel povero montanaro si
sentì perso in quella babele di voci e suoni sconosciuti, non credeva esistesse
tanta gente al mondo. Il freddo s'era fatto pungente, sollevò il bavero della
giacca, lo serrò alla gola tenendolo stretto nel pugno e proseguì verso
l'uscita.
Varcò uno degli ampi portali
dell'ingresso principale al di sopra del quale un grande orologio sillabava ai
viaggiatori il trascorrere del tempo ed uscì sulla grande piazza. Alzò gli
occhi e restò affascinato dalla colossale opera architettonica che si
stagliava contro il cielo di Roma.
Il gigantesco fabbricato in
vetro e ferro, dietro il quale s'intuiva ancora la primitiva struttura in
legno, era protetto da una grande
tettoia smerlata in cima alla
quale si ergeva un lungo pinnacolo. Al centro dell’edificio spiccava in rilievo
un fastoso stemma ,ai lati si slanciava una coppia di costruzioni gemelle a due
piani sorrette da possenti colonne. Tra un piano e l'altro un ampio terrazzo ,
poi una nuova fila di pilastri, infine il tetto guarnito di guglie.
Incantato riuscì finalmente
a distogliere lo sguardo da quel monumentale complesso , si guardò intorno , i
cartelloni pubblicitari sbiadivano sulle facciate dei palazzi. Vide davanti a
sé le luci smorzate di un bar, cambiò di spalla la sacca, e si diresse verso il
piccolo locale. Lo raggiunse, spinse la vetrata appannata ed entrò.