CAPITOLO 8

 

 

Il tempo delle mele

 

 

 

 

 

l periodo delle scuole medie non fu gran cosa o forse sì, ricordo solo l’incredibile pazienza del cartolaio di via Gasperia, le botte da orbi con i compagni ripetenti – il carattere schivo e la costituzione gracile mi trasformavano in una preda ideale ma non certo remissiva per le tradizionali piccole ma spietate persecuzioni dei più prepotenti  -   ore di studio noioso e soffocante, interminabili raccolte di figurine,overdose di fumetti , qualche partita a pallone e,  ahimè, le prime brucianti infatuazioni!

Fu solo allora  che cercai d’imparare ad andare in bicicletta - prima non ne avevo mai avuta una -  me la prestarono, glie la sfasciai contro un muretto, me la sfilarono da sotto il culo. Ci riprovai qualche mese più tardi e , dopo numerosi ,  imbarazzanti capitomboli,  finii per trovare  un sia pur precario equilibrio sui pedali . Non era comunque pane per i miei denti , era ovvio che non sarei mai diventato un campione di ciclismo , meglio scendere dal sellino  prima di farsi troppo male.    

Nell’arco di tempo in questione ero solito frequentare, come molti miei coetanei,  i cinema parrocchiali, mitiche sale di quartiere ormai scomparse come il Libia , attiguo alla chiesa di S. Maria Goretti,  o l’Eritrea appartenente alla parrocchia di Santa Emerenziana .

Quando  non avevo voglia di studiare, situazione piuttosto ricorrente, mi rifugiavo in platea e per il modico costo di 1000 lire – pop corn compreso – assistevo , il più delle volte, a tutti e due gli spettacoli pomeridiani che si susseguivano tra le 15 e le 19.

Le pellicole proiettate in quei locali erano di solito le mie preferite, quelle del filone storico – mitologico.  Ingenui peplum di grana grossa che raccontavano le improbabili e mirabolanti gesta di granitici e muscolosi eroi del tempo antico ingaggiati da decrepiti sovrani per liberare dagli artigli di mostruosi  draghi o dalle turpi attenzioni di depravati cattivoni le loro piacenti figliole perennemente in calore. Ambientazioni e datazioni erano alquanto fantasiose e lasciavano spazio a numerose licenze storiche , nei 16 millimetri in proiezione non era pertanto difficile trovare Ercole e lo zar  darsele di santa ragione, Sansone seduto accanto a Lancillotto  far la corte a Ginevra o Maciste rincorrere con il suo vascello (?) i terribili pirati del mar delle Antille. Splendide fanciulle come Elena di Troia ispiravano le imprese di atletici forzuti in minigonna che,  sebbene adescati per l’intera durata della pellicola  da provocanti puttanelle in sottoveste , finivano al termine  del film per andare immancabilmente in bianco.     

Andavo pazzo per il genere, un po’ meno i miei pazienti amici, convinti a fatica a seguirmi  e spesso costretti a sorbirsi polpettoni indigeribili per accontentare il sottoscritto. Non sempre però tutto filava liscio, a volte si superava il limite  della sopportazione umana e finivo giustamente per subire l’ira funesta dei miei incazzatissimi accompagnatori che mi rincorrevano fuori dal locale per darmele di santa ragione.

E' piacevole rivivere istanti trascorsi a sognare,  adescato dalle moine della fantasia e cullato da quelle della nostalgia , come  quella notte: la notte della Luna.  

Era giusto una calda notte d'estate di trentadue anni fa, ci trovavamo a Pagliara come di consueto per le vacanze estive, avevo radunato la combriccola dei soliti amici  nella cucina della casa di p.za S.Salvatore per assistere all'allunaggio, eravamo tra i pochi in paese a possedere un televisore.

Disposti tutti intorno al tavolo aspettavamo con ansia che Aquila si posasse sul suolo lunare, fuori i grilli ciarlavano ininterrottamente, la notte era tranquilla , il cielo buio , appena rischiarato dalla Luna che s'era intrufolata  nella virgola disegnata  dalla cima della Cona e da quella  dell'Arcigalante, l'atmosfera evocava incantesimi da fiaba.

La diretta televisiva Speciale Luna iniziò alle 19,30 di domenica 20 luglio 1969 e terminò alle 8 del giorno dopo, in studio Tito Stagno e Andrea Barbato, collegato da Houston il mitico Ruggero Orlando.

L'attesa si dimostrò più lunga del previsto, uno ad uno i miei amici s'addormentarono col capo adagiato tra le braccia acciambellate sul tavolo rosso di formica, al contrario i miei occhi in vetrina  non smettevano di fissare lo schermo, affascinato dall'evento non avvertivo la stanchezza di quella nottata insonne spesa a rincorrere le stelle.

Soltanto alle quattro e cinquantasei il Lem toccò la superficie del satellite nei pressi del mare della tranquillità, credevo di sognare, cercai di svegliare qualcuno con cui poter condividere una tale emozione ma invano, qualche ora dopo  Neil Armstrong mise piede su quel terreno sabbioso imitato poco dopo dal compagno Edwin E. Aldrin mentre Michael Collins sul modulo di comando continuava il suo girotondo tra le stelle.

Incollato al televisore non smisi un momento di seguire i passi dapprima incerti poi sempre più sicuri dei due astronauti anche se gli occhi cominciavano a lacrimare e le lacrime ad appannare le lenti degli occhiali, una rapida strofinata con il lembo della camiciola, qualche batter  di ciglia per ripristinare una visione appena decente poi m'inabissavo nuovamente nell'esplorazione di quel nuovo mondo.

Non dimenticherò mai quella notte, come potrei?

Uno dei rari momenti in cui sognai ad occhi aperti, un sogno in bianco e nero punteggiato dai pixel incerti del Telefunken che sagomavano a fatica la figura dei due omini dello spazio che saltellavano come vispi ragazzini su quel sasso scolpito nel cosmo, anche quel sogno tuttavia al mattino svanì e , forse , da allora smisi di sognare.

I telespettatori, si fa per dire, lasciarono l’improvvisata  sala di proiezione , in fila indiana varcarono la porta finestra e s'incolonnarono lungo la scala che porta alla piazza oltrepassando infine il cancello che si chiuse dietro l'ultimo cigolando come al solito, li osservavo incuriosito chiedendomi come avessero potuto rinunciare ad un tale irripetibile spettacolo, poi guardai in alto per scorgere ancora la Luna, ormai  albeggiava ma era ancora lì con i suoi insoliti ospiti ad oscillare all'orizzonte in attesa del consueto cambio con un sole ancora assonnato.

Dov'erano i miei fratelli? E i miei genitori? Non lo ricordo.

C'erano anche loro quella notte ad assistere a quel leggendario sbarco o erano andati a dormire?

Che importanza ha? Io c'ero, solo questo conta.

E' tutto vero, non ho inventato niente, quel ragazzino , poco più di dodici anni, da quella notte non fu più lo stesso, segnato come milioni di altri in tutto il mondo da quella fantastica esperienza.

Venne infine il tempo degli amori, quelli che fanno male sul serio, quando non sei ancora pronto ad incassare gli sganassoni dalla vita, accade così che  prima di rendertene conto finisci a terra col fiato corto colpito duro allo stomaco dagli occhi dolci di una ragazzina in erba o dalle lusinghe perverse di una donna già matura.

Senza alcun dubbio furono più le pene che le gioie ma allora era sufficiente  un breve attimo di felicità per cancellare un intero anno di sofferenze. 

Cotto fin dalla culla per Santina che “è bella e bona” , come recita uno storico graffito inciso sulla parete esterna della chiesa parrocchiale di Pagliara , la prima vera infatuazione divampò, come era logico aspettarsi,  in quel  paese galeotto dove le notti piene di stelle accendono naturalmente un fuoco di emozioni , fatale ai giovani cuori inesperti.

Era l’epoca dei sogni ancora intatti ,Carla era una ragazza dolcissima per la quale il cuore del tentennante Tiddo patì cocenti pene d'amore che s'infransero per mesi, forse per anni contro le amare sponde della timidezza - come sono toccante - sbriciolandosi alfine sulla battigia senza mai neppure sfiorare l'agognata meta. Fresca!

Prèvert me fa 'na sega!

Insomma per farla breve non riuscii mai a dichiararmi nonostante le infinite possibilità che quella roccia d'Abruzzo mi offriva,  ricamando tappeti di stelle nelle tiepidi notti estive e dipingendo incantevoli tramonti sul far della sera.

Preferivo evidentemente logorarmi in acrobazie emotive , tanto sterili quanto pericolose , piuttosto che rischiare di finire col culo per terra.

Chissà se avrà mai compreso il bene che le ho voluto?

"Tutto passa e tutto se ne va" come intonava una celebre canzone di quel periodo, resta solo il ricordo di quelle sere d'estate trascorse al C.D.P. - Club di Pagliara- una fredda stalla trasformata in sala da ballo situata nella celeberrima via dei morti, non più tana d'orchi e streghe malvagie, dove si ballava si pomiciava e si consumavano nei complici chiaroscuri tratteggiati dalle candele rubate in chiesa amori segreti e le ore liete di una giovinezza lesta a sfiorire.

Sì lo so, immagine decisamente obsoleta, trita e ritrita. Che palle! Se vengo dopo tanti pennaioli che volete possa inventare?

Quando le femmine , richiamate da madri ansiose o padri imbufaliti , se ne tornavano verso mezzanotte all’ovile, i maschi  del branco -  spesso alticci,  sempre arrapati  -  perdevano il controllo e si scatenavano  in dinoccolate  danze tribali al ritmo sfrenato di Thick as a Brick o Tarkus ed insieme aspettavano l’alba.

All'epoca dei fatti risuonavano alle pendici di quei monti le musiche e i testi del primo  Battisti  diffuse da voraci mangiadischi che divoravano i malcapitati 45 in vinile. I dischi scricchiolando sinistramente  stonavano per il rapido consumo delle batterie ma nessuno di noi  ci faceva caso,  presi com’eravamo dalle suasive fragranze di verginelle  in credito di ormoni e prosperose mine ad altezza stomaco.

Quelle canzoni suggerivano ai cuori impreparati di noi adolescenti emozioni rovinose ,ci si lasciava suggestionare dalle  notti stellate d'agosto e si finiva prima o poi mano nella mano con attraenti ragazzine disposte a tutto pur di massacrarti il fegato a colpi d'amore.

Il ritorno a Roma era sempre triste ma lo fu ancor di più quel mattino d'ottobre  di tanti anni fa quando m'accostai  impaurito al portone d'ingresso della scuola media statale "Federico Cesi".

Proviamo a tornare sull’argomento.

Dopo la dura  esperienza della scuola elementare , pur sempre mitigata dalla comprensione degli insegnanti verso i loro piccoli scolari ancora insicuri ,si cominciava a fare sul serio.  Quei tre anni di preparazione al liceo trascorsero in classe a buscare sberle dai ripetenti che sfogavano la loro arroganza su uno scrocchiazeppi , quattrocchi in vetrina e mezzo naso in cantina  - pur tentando di resistergli, dovevo comunque sottostare alla legge del più forte -  a Villa Chigi per  qualche partita a pallone e in casa a consumare un paio di preziose ore di luce al giorno per leggere libri idioti , ripetere noiosissime poesie o scarabocchiare quaderni , tentando senza troppa fortuna di risolvere improbabili problemi d’aritmetica.

Non ricordo granché, qualche volto di compagno, qualche breve momento passato in aula ad ascoltare banali lezioni  o veementi  esortazioni allo studio  da parte di  professori sfigati che ben poco credevano in quel che dicevano, e poco altro.

Sì, è vero, ora ricordo, i Lyons , maglietta verde con bordi neri e pantaloncini bianchi, era la squadra della mia classe con l’indispensabile inserimento di un paio di stranieri,  tra i quali il mio ex compagno di banco . Franco era infatti approdato alla mia stessa scuola ma nell’aula accanto alla mia, avevo ritardato l’iscrizione e per questo ero stato costretto a scegliere come lingua straniera il francese , il mio giudizioso amico era stato più previdente.

Un tardo pomeriggio di marzo  , arrivato al solito con largo anticipo al luogo d’appuntamento con i miei compagni di squadra, non trovai di meglio da fare che passeggiare lungo il crinale alto di Villa Chigi per far trascorrere il tempo che mi divideva dall’incontro . Me ne stavo tranquillo e beato a farmi i cazzi miei sul sentiero tracciato alla buona dai passi di chi mi aveva preceduto seguendo con gli occhi il filare d’alberi che conduceva lo sguardo verso viale Somalia, quando fui improvvisamente assalito da un gigantesco cagnaccio sbucato da dietro un cespuglio . La bestiaccia , nera come il demonio, ringhiando e sbuffando  mi si avventò contro scaraventandomi a terra. Non so come, ma mentre rotolavo sul prato , seppellito da quella sorta di cavallo, trovai la forza d’animo e la prontezza di assestargli un preciso uppercut sul muso. L’animale, probabilmente sorpreso dalla mia replica, mollò la presa, scartò e infine  se la diede a gambe, mi rialzai , mi tolsi di dosso gli arbusti e le foglioline che s’erano attaccate alla giacca e ai pantaloni  poi , raccolta la borsa da ginnastica, tornai a vagabondare in attesa degli amici.

M’intrattenni un attimo con me stesso per analizzare l’insolita vicenda e la mia,ancor più sorprendente, reazione , “Strana metamorfosi per un ragazzino mingherlino e pieno di paure come me. ” pensai , e , in quel preciso momento,  compresi il senso di una delle tante massime che mi aveva svelato papà : “ Necessità fa virtù.”

Poi fu il ginnasio.

Il primo timido approccio fu irto di ostacoli, alla spaventosa matematica, odioso universo oscuro e incomprensibile, come ho già avuto il modo di raccontarvi, si aggiunse l’algebra, ancora più misteriosa ed inutile, ma soprattutto invasero la mia privacy la lingua greca e quella latina con le traduzioni di poeti e storici che, per quanto mi riguardava ,avrebbero fatto meglio a fare un altro mestiere anziché scassare u cazzo, come direbbero i miei amici partenopei,a chi aveva solo voglia di divertirsi, suonare la chitarra e dar la caccia alla topa, appassionante sport nel quale ero indubbiamente un dilettante , ancora inesperto ma deciso ad imparare in fretta e pieno di buona volontà di far bene.

Quel che colpiva particolarmente gli insegnanti, quando esaminavano le mie  traduzioni, era la mia sbalorditiva fantasia.

Terminata la trasposizione ero convinto d’aver fedelmente riportato nella lingua italiana quanto narrato da ‘sta gentaglia dei tempi andati, ma, alla prova dei fatti, quando la raggrinzita professoressa Martini correggeva la mia versione, mi rendevo conto d’aver scritto tutta un’altra storia che nulla aveva a che fare con l’originale.

Con l' attempata docente di greco s’alternava sulla cattedra dell’ austera aula del IV° ginnasio sezione “C” sita in Roma nei pressi di corso Trieste, al secondo piano dell’Istituto d’istruzione classica “Giulio Cesare”, l’insegnante d’Italiano ,il valente professor Eugenio Falcone. Geniale autore di singolari saggi su Dante nei quali   riportava  soltanto citazioni di insigni studiosi del Ghibellin Fuggiasco senza aggiungere neppure una riga di suo, era un tenace sostenitore dell’azzardata tesi secondo la quale  il sei stracciato lo avrebbe potuto assegnare  solo al poeta toscano e… non sempre . Potete ben immaginare i voti che assegnava a noi poveri tapini!

Storia e filosofia, nuova materia quest’ultima che compresi subito era utile principalmente a chi dalla vita aveva tutto e non sapeva che cazzo fare, erano territorio della ributtante Artegiani, grassa strega fiorentina che quando alitava il suo toscano sterminava le mosche a branchi creando il vuoto attorno a sé.

Il professore di educazione fisica, non ne ricordo il nome, tipetto amabile e garbato,  era un poco edificante campione della razza  ti spiezzo in due! e , senza inutili giri di parole , ci esortava a dormire  di più durante la notte  piuttosto che perder sonno a spararci seghe a tutto spiano.

Completavano la rosa degli insegnanti altri campioni dell’ etnia Homo sapiens scassacazzis che con i loro preziosi insegnamenti ci iniziarono alla nobile arte del Precariatus, trasformandoci in  homo sapiens precarius , dotti individui cioè che conoscono  un mucchio di cose senza sapere che cazzo farsene.

Il ginnasio tuttavia,ringraziando L'Onnipotente,non era solo studio anche se all’inizio furono tempi duri, era anche impegno politico,quello, per capirci, che ti consentiva di saltare l’interrogazione e di scandagliare l’aula magna,sede dei collettivi studenteschi,per stanare nuova fauna femminile per la famosa caccia alla topa  visto che in classe non te la dava nessuno.

Ma soprattutto la nuova scuola era musica,sì,quella con la “emme maiuscola e ragazze,sì quelle con le tette maiuscole!

La mia prima giovane preda fu una compagna di classe , quella del terzo banco,  la più carina  come canta Venditti, un amore platonico come solo a quell’età può essere possibile.  Accade così che mentre uno dei due è lento di comprendonio l'altra te la darebbe volentieri e te ne fa persino sentire l’odore per darti la sveglia  , sfortunatamente per lei  incontra però un coglionazzo assolutamente incapace di decriptare i codici segreti delle donne ed ogni suo sforzo è vano. Così va il mondo.

Un pomeriggio mi portò a casa sua ma io…volli fare la ricerca!!!!

Altro pezzo di gnocca che non osai mai nemmeno sfiorare se non con il pensiero una tal Francesca Romana che viveva in una splendida palazzina di via di Priscilla.

Non avevo purtroppo dimenticato Nunzia,ne parlerò più avanti, dolce ragazzina per la quale a quei tempi  il fragile cuore del debuttante  Marco batteva all’impazzata e così il summenzionato cuore scelse l’amore tutto sospiri e niente topa piuttosto che quello tutto topa e niente sospiri…la coglionaggine del Tiddo in amore emise il primo commovente vagito che con il passare degli anni diventò un assordante urlo.

Di quei tempi poteva capitare con una certa frequenza di trovarsi in mezzo a pericolosi tafferugli scoppiati all'improvviso nel cortile interno del Giulio  o  di fronte al bar Tortuga , truce covo di fasci a due passi dal liceo . I neri  se la prendevano con i rossi rei di non farli intervenire alle assemblee di istituto, e roteando catene e bastoni minacciavano sanguinose rappresaglie . Caschi sulla testa, giubbotti neri e stivaloni d’ordinanza gli orfani del Duce si facevano avanti lanciando insulti e intimidazioni agli eredi di Marx , questi ultimi, dal canto loro non si facevano certo pregare e reagivano rabbiosamente caricando a testa bassa chiunque , a torto o ragione,  si trovasse sulla loro strada.

Purtroppo un freddo mattino, pochi minuti prima dell’inizio delle lezioni, mi misero in mezzo, una catena mi sfiorò il viso portandomi via gli occhiali, intravidi -  altro non potevo fare visto che s’era improvvisamente spenta la luce -  un paio di sagome  che rotolando sull’asfalto se le davano di santa ragione.  Per  evitare il peggio mi gettai a terra e tentai di recuperare telaio e vetrine a supporto della mia carente percezione visiva   , Santa Lucia s’intenerì e mi diede una mano: mentre, a tastoni. sondavo il terreno avvertii una fitta sotto il palmo della mano, erano i frammenti di una lente, l’altra era miracolosamente rimasta intatta, inforcai quel che rimaneva della montatura, mi rialzai in piedi e me la diedi a gambe prima che la zuffa da saloon si facesse generale .

Il problema maggiore in quel periodo erano i quattrini . Non che oggi sia cambiato qualcosa beninteso. Nelle tasche dei pantaloni qualche moneta e rare banconote  per acquistare dischi e fumetti , unica fonte di sostentamento fino agli anni ottanta la spunta delle schedine il lunedì pomeriggio e ,durante le feste di Natale , il recapito dei pacchi regalo , per conto dello snack-bar  Motta di fronte casa , in cooperativa con fratelli o cugini motorizzati.

Nel traffico caotico dei giorni di festa  giravamo in lungo e largo la capitale sulla leggendaria seicento beige di zio William o sul cinquino di Piero, muniti di Tuttocittà e buona volontà, alla disperata ricerca di piazze remote  o sperdute vie ai confini del mondo .  Dopo aver scalato interminabili rampe di scale – a dar retta ai portieri l’ascensore per i fattorini è inspiegabilmente sempre guasto – ci si presentava alla porta piegati su se stessi , capelli arruffati e  lingua penzoloni,  ansimando come una tradotta con la segreta  speranza che il destinatario del pacco, toccato dalla straziante scena,  elargisse una cospicua mancia. Non sempre andava bene e, al solito,  le più generose erano le persone semplici. Non fate affidamento su clero e religiosi  , un paio di volte oltrepassai gli splendidi giardini vaticani per bussare ai magnifici portoni di vescovi e cardinali , sempre senza intascare il becco di un quattrino.  

Fu durante il primo anno delle superiori che vinsi una vacanza premio gentilmente offerta da nostro Signore. Me ne stavo sdraiato sul pavimento della mia stanza ai piedi del letto a sfogliare le pagine del nuovo Zagor -  parente povero del danaroso capo dei navajos -  appena  uscito in edicola, quando avvertii i primi sintomi, delle fitte lancinanti al basso ventre , sulla destra appena sopra i zibidei . Non gli diedi troppa importanza , a quell’epoca non si era ancora fatto vivo quello stronzo dell’elicobacter Pylori né registravo la sintomatologia tipica dell’ernia iatale e dell’ulcera duodenale, non era raro il caso quindi che ad una spensierata e disordinata alimentazione a base di salciccia, pastasciutta e frittatona di carciofi accostassi abbondanti libagioni  di vino e super alcolici tracannate in compagnia di amici mondani e disinibite femministe tout court. 

Ciò nondimeno gli spasmi si fecero più frequenti e il tormento insopportabile, mia madre, certa del fatto suo, diagnosticò una virulenta indigestione e sparandomi in culo una terrificante peretta di proporzioni industriali di purgante non fece che peggiorare la situazione.

Passai la notte insonne e al mattino la situazione parve precipitare, piegato su me stesso cominciai a contorcermi dal dolore ,  le fitte erano ormai diventate pugnalate, finalmente chiamarono Mattei , il dottorino del primo piano ,  questi vedendomi pallido in viso e sfigurato dalla pena  – sto esagerando? - sentenziò senza alcun dubbio la natura del male: appendicite con sospetta peritonite perforante.

Non c’era tempo per portarmi al pronto soccorso consegnandomi  ai tempi biblici della sanità pubblica, occorreva  un ricovero immediato -  l’avevo fatto ovviamente a bella posta  -  così, varcata la soglia della lussuosa Villa Mafalda,  m’affidai alle amorevoli cure delle piacenti infermiere della clinica e a quelle dei capaci medici della signorile struttura privata.

Finalmente siete arrivati!”

Dichiarai ai portantini che dovevano condurmi in sala operatoria.

Un paio d’ore dopo mi svegliai nella mia elegante cameretta singola senza quell’inutile appendice,  inforcai gli occhiali appoggiati sul comodino, mi guardai attorno per un rapido saluto ai gentili visitatori sopraggiunti al mio capezzale, poi recuperato il segno -  avvedutamente lasciato il giorno prima -  sull’ultima striscia letta del giornalino di Zagor  , ripresi a voltare quelle pagine per seguire l’appassionante saga dello spirito con la scure e del suo panciuto amico Cico Felipe Cayetano Lopez Martinez y Gonzalez tra i folti boschi  del nord est degli Stati Uniti.

Una vacanza da sogno , sveglia alle prime luci dell’alba – unico neo la fastidiosa iniezione delle sette e mezza – poi una colazione da nababbo con fette biscottate sapientemente imburrate o sepolte sotto una zuccherosa coltre di  marmellata , latte caldo e buon caffè d’autore.

Verso le undici la premurosa caposala veniva ad informarsi sulle mie preferenze per il pranzo : tortellini, bistecca al sangue e chianti classico , questo il menù prediletto dall’affamato paziente.

Trascorsa la mattinata a leggere o guardare la tivù arrivava sospirata l’ora del banchetto, un riposino pomeridiano, ancora un po’ di televisione poi la non meno appetitosa cenetta di fine giornata con brodino caldo, filetto e patatine lesse.

La pacchia finì dopo una settimana , nella livida luce del mattino  di piazza Trento , tetra e minacciosa m’aspettava la fredda aula in fondo al lungo corridoio del secondo piano del liceo classico Giulio Cesare, affollata di compunti colleghi , avvenenti compagne e cariatidi dal look trasandato e dall’eloquenza barbosa con assurde pretese nei confronti di un povero studentello di primopelo.

Il ginnasio, con l’avvento delle classi miste e la promiscuità che ne seguì, segnò anche l’inizio dei primi balli con luci soffuse e mano morta. Nella stuzzicante penombra dei saloni  anch’io come tutti muovevo i primi cauti passi nel pianeta sesso.

Pungolati dal timore dell’arrivo dei genitori -   entrando nella stanza   avrebbero fatalmente acceso i lampadari sul più bello e controllato le mosse dei più audaci - posizionavamo sul giradischi l’unica  arma a nostra disposizione,  se si sorvola su un nutrito plotone di entusiasti ormoni in assetto di combattimento , per tampinare le parti più appetitose delle fragranti  passerine in amore :  il Tuca Tuca di Raffaella Carrà .  Il micidiale  45 giri , collocato più volte sul piatto dal solito disc jockey sfigato, avrebbe girato per ore sul Thorenz fino a scartavetrare la puntina del braccio a esse  ,  le improvvisate coppie da parte loro ,  bava alla bocca  e mani sudate, avrebbero ballato   sulla moquette fino al completo sfinimento delle forze e al definitivo consumo delle suole delle confortevoli adidas.

Inizialmente le feste si svolgevano sempre a casa di una compagna di classe di Franco Giuffrida , tale Silvia Ronchetti, per gli amici Monchetti, che , manco a dirlo ,  mi piaceva un botto , a dir la verità a quell’epoca  mi piacevano tutte, bastava che avessero occhi zuccherini ed espressivi e tutte le loro invitanti cosine al posto giusto.

Niente di serio beninteso,ero sempre innamoratissimo di Nunzia,la negra,come veniva chiamata da tutti noi, dolcissima, carnagione olivastra, occhi  neri e intensi da cerbiatta e un gran paio di appetitose tettone che colpivano nel segno punzecchiando le mie fantasie erotiche che allora ,in verità, erano proprio unicamente fantasie.

Durante una festa da ballo, eravamo proprio a casa sua, incoraggiato da un’atmosfera compiacente e dal momento che mi sembrava propizio, presi coraggio e le stampai un bacio alla Humprey Bogart  in piena bocca , nella stanza risuonavano le emozionanti note della colonna sonora de Il Laureato. Il primo vero bacio! La piccola, inebriata ,ricambiò ed io sentii muovere qualcosa dentro di me…i soliti maliziosi! Non intendevo quello!

Per la prima volta condividevo un sentimento sincero,le mie emozioni,  finalmente ricambiate, imboccavano l’autostrada e non si trovavano di fronte , come era stato fino ad allora,ad un senso unico con divieto d’accesso. Credo d’averla amata , sono certo che anche lei m’abbia voluto bene, ci cercavamo , sempre , e con questo , come direbbe l’impareggiabile Peppino De Filippo ,  ho detto tutto.

Sul più bello,come spesso accade, si accesero le luci e svanì l’incanto, ritta  in piedi accanto alla porta della camera, le dita nervose ancora   sull’interruttore, apparve la madre,sguardo severo e volto serio.

Pochi minuti dopo eravamo tutti per strada, cacciati in malo modo dalla sprezzante  padrona di casa come se, peccaminosi satiri in cerca di giovani verginelle da immolare all'altare della nostra lussuria,ci fossimo abbandonati a festini dissoluti, che era poi la verità sacrosanta.

Quella sera mentre me ne tornavo a casa con la terza gamba dolente tra le altre due ,ero comunque felice ed attendevo con ansia il giorno dopo per rivederla all’uscita di scuola.

Anche quel mattino il sole si levò ,mi recai come sempre a scuola, questa volta più volentieri e ,terminate le lezioni,  rimasi trepidante in attesa dell'uscita della classe della mia nuova conquista .  Qualche minuto dopo  intravidi la sua snella figura tra quelle delle compagne che starnazzavano come oche giulive, feci per avvicinarmi ma fui bloccato dal suo sguardo allarmato che m'indicava con insistenza la scalinata che conduceva all'uscita, mi voltai e avvistai la madre che, accorto gendarme, era venuta a prenderla. Non mi restò che far buon viso a cattivo gioco e tornarmene deluso a casa in attesa di momenti migliori.

Purtroppo non vennero mai , per giorni il zelante sergente maggiore sorvegliò l'avamposto impedendo un nostro incontro e quella che poteva diventare una bella storia d'amore sbiadì pian piano cancellata dalla stupidità di quella donna.

Per diverso tempo continuai a passare di proposito davanti al negozio di Coiffeur dove ,dopo la scuola, si recava per aiutare la mamma, nella speranza di incontrarla e poterle parlare ma fu tutto inutile, ce ne misi di tempo per dimenticarla e ,come spesso accade ,ci riuscii soltanto quando il nuovo chiodo schiacciò il vecchio. Riuscì ad incontrarla , mai in solitudine  , solo  in circostanze particolari come feste di compleanno di qualche componente la comitiva o  partite a pallone tra amici.

A tal proposito  tragicomica l’avventura che mi capitò in occasione di una delle tante partitelle disputate al Cristo Re , unico istituto scolastico, ovviamente privato,  fornito all’epoca  di un campo di calcio in terra battuta   raggiungibile a piedi e munito di porte quasi regolamentari ,  un terreno di gioco insomma dove non si rischiava di finire ingoiato dalle sabbie mobili .

Quando entrai con i miei compagni di squadra nello spogliatoio per indossare maglietta e pantaloncini  sbirciai tra lo sciame vociante di ragazzine a bordo campo e la vidi, il cuore mi saltò in gola , mi cambiai in fretta e scesi sul rettangolo di gioco deciso a fare la mia porca figura .  Purtroppo nel passare sul viottolo  di cemento in discesa che dallo spogliatoio portava in campo scivolai cadendo pesantemente a terra, tra l’ilarità dei presenti cercai di darmi un contegno e , abbozzato un sorriso di circostanza,  mi rialzai prontamente.

In un primo momento sembrava non fosse accaduto niente di grave,  cominciai così con disinvoltura a sgambettare  e a scambiare allegramente il pallone con i compagni in attesa del fischio d’inizio. Improvvisamente il ginocchio cominciò a scricchiolare e a farmi un male d’inferno, il sangue si fece largo tra la polvere e il terriccio  e prese a scorrere a fiotti, in breve la rotula diventò un pallone , non riucivo più nemmeno a poggiare il piede a terra, il dolore si fece insopportabile mentre montava la delusione di non poter mostrare il mio valore in campo alla mia bella .

Saltellando con un  solo piede  lasciai il terreno di gioco cercando di non farmi notare e mi allontanai per imboccare le scalette che conducevano fuori dalla scuola.

Non so chi mi diede la forza  di attraversare il parco e scendere per via Nemorense procedendo a piccoli balzi come un picchio con le lacrime agli occhi e una gamba in meno , ad ogni sobbalzo le fitte si facevano più lancinanti ed il tremore mi faceva sudar freddo. Approdato di fronte alla parrocchia di S. Emerenziana entrai in chiesa chiedendo conforto a Dio, mi capitava spesso in caso di bisogno, poi proseguii verso casa, l’interminabile viaggio ebbe finalmente termine , con le ultime forze salii le scale dell’androne , presi l’ascensore e suonato il campanello mi feci aiutare da mamma che era venuta ad aprirmi  a raggiungere il letto.

Il ginocchio era  livido , il sangue rappreso, l’osso  fuori posto, il dottor Mattei , l’ex dottorino ormai illustre clinico titolare dello studio medico al primo piano già ospite di queste pagine qualche riga più indietro , diagnosticò una forte  distorsione , l’infortunio si rivelò più serio del previsto, il bruciore e l’indolenzimento si fecero tanto intensi da farmi vedere  la Madonna , in compenso non mi permisero di tornare a scuola tanto presto sottraendomi così ad un’intera settimana  di barbose lezioni.

Un'altra avvenente pulzella che lasciò il segno nel mio vulnerabile cuore in rodaggio fu una certa Rossella abitante in un lussuoso appartamento di via Lucrino. Un pomeriggio in allegra compagnia ci dilettavamo con il gioco della coperta , passatempo allora in voga tra le comitive in cerca di emozioni forti, per chi non lo ricordasse eccone per sommi capi  regole e svolgimento del gioco: si tratta di indirizzare, facendo roteare la bottiglia sul pavimento, un bacio, un pugno, un calcio in culo , una carezza o quel che più vi aggrada  al compagno di gioco indicato dal collo della bottiglia stessa quando questa si ferma.  Il rituale che seguiva doveva compiersi al riparo da occhi indiscreti,  sotto una coperta appunto , tenuta sollevata dagli altri giocatori.

La bionda fanciulla, ancora sgraziata nei modi ma assolutamente interessante in quanto al resto propose un bacio e avvitata la bottiglia la fece piroettare vorticosamente sul pavimento, manco a dirlo il fortunato destinatario fu il sottoscritto, scivolai lascivo con la mia disinvolta compagna  sotto la coperta e fui improvvisamente investito da un travolgente bacio "con la lingua" - quando si conversava tra amici gloriandoci delle nostre fugaci conquiste si soleva in tal modo distinguere i baci veri dai bacini sulle labbra -  il risucchio mi lasciò senza fiato .

Non la rividi più ma continuai a pensare a lei per mesi.  Alta, occhi azzurri ,biondissima, lunghe gambe affusolate, tettine a goccia modello coppa di champagne e due chiappe sode da infarto , quanto bastava insomma per annientare un esordiente nella caccia alla topa come me.  La biondina d’altronde fu uno dei tanti  Jet supersonici che transitarono sotto le mie spesse lenti senza che riuscissi ad afferrarli e trattenerli oltre l'istante e ,come gli altri, lasciò soltanto la traccia nel cielo dei miei sentimenti scavando un profondo solco nel mio cuore  acerbo - 'azzo come so' poetico .

Nel frattempo studiavo - fresca come studiavo! -  prendevo inutili ripetizioni di matematica e cominciavo a strimpellare le prime stridule note zappettando la chitarra di Claudio Quinti.

Rincasavo con il cervello in fermento , m’appartavo nello studio  e fermavo sulla carta i miei pensieri, la notte non dormivo più, mi sembrava una perdita di tempo,  preferivo comporre canzoni e ascoltare musica pop . Probabilmente rompevo le palle ai miei che avrebbero voluto riposare ,tuttavia la fase critica del passaggio all'età adulta suggerì ai miei due sfortunati conviventi una certa soglia di tolleranza consentendomi di dedicarmi ad attività più o meno rumorose, certamente "più" che "meno", senza scassarmi troppo le bocce.

A proposito di bocce!

Al "Giulio Cesare" era il periodo dei Collettivi e delle Assemblee contro tutto e tutti, altro che nuclei antiglobalizzazione ,là, con la scusa dell'impegno politico foriero di turbinosi quanto irrealizzabili sconvolgimenti sociali, si faceva facilmente amicizia con la fauna a due tette del luogo. Cavallone inviperite tutto "la topa è mia e me la gestisco io" che però della sorca in questione non ti facevano nemmeno sentire l'odore, anzi ,la puzza, considerata la scarsa igiene che vigeva all'epoca dei fatti tra quelle scalmanate femministe urlanti riunite a piazza Navona , luogo nel frattempo adibito a tempio di quelle nuove vestali dall’utero indipendente. 

Ciò nonostante le mie irrefrenabili fantasie sessuali galoppavano furiosamente dietro le precitate puledrine alla ricerca di un tete a tete – non riuscirò mai a capire come cacchio si digita l’  accento ^ sulla e  - che potesse trasformarsi in un forsennato tette a tette.

Conversando con loro cominciai a mettere un po' d'ordine tra le mie lacunose nozioni circa l'altra metà del cielo apprendendo tra l'altro, con vivo stupore,  che le mestruazioni non venivano forzatamente alla fine del mese come credevo io, un po' come lo stipendio al 27.

Insomma più le frequentavo più mi piacevano -  le donne intendo -  cominciai così a trascurare svaghi meno rischiosi come il calcio, la musica e i fumetti.  Per darmi un tono indossavo cenci spiegazzati da straccione, preferibilmente sfrangiati, inseguito dalle preghiere commoventi di mamma che mi implorava invano di poter "mettere due punti" ai calzoni strappati, assumevo così quell'aspetto un po’ trash da musicofilo mezzofatto che seduceva a quei tempi  le belle maiale in calore. 

Si profilava all'orizzonte anche la possibilità di spararsi canne come piovessero , com'era accaduto per le seghe in tempi più remoti, le provai ma ad essere sincero, non avvertii granché , rimasero soltanto l'arma in più per catturare quella selvaggina recalcitrante che non sembrava cedere senza la prospettiva di suggestioni particolari.

In quegli anni ero piuttosto preoccupato per il mio look, capelli lunghi, ben oliati da grasso naturale, con un taglio alla "me so' arzato stammatina ma nun me va de fa' 'n cazzo", arruffati e incollati alle tempie modellavano una tendina alla Guglielmo Oberdan con la virgola del ciuffo impennata sulla fronte ,il volto era solcato da crateri arrossati con  montagnole biancastre venate di rosso, i più la chiamavano acne giovanile, ostacolo pressoché insormontabile ad un sano rimorchio per una generazione cresciuta a forza d’omogeneizzati , a me sembrava il massacro di forte Apache, un vero disastro, la faccia a volte sembrava esplodere di pus - bleah! -  e i primi peli di barba ispidi che cominciavano a spuntare a fatica tra brufoli sanguinolenti e punti neri non miglioravano certo l' aspetto complessivo. Due lenti esagerate incorniciate da un'orribile montatura di tartaruga nera rimpicciolivano poi una coppia di occhietti vitrei e spauriti completando il desolante quadro.

Convinto di essere uno spaventapassere evitavo il confronto con l’altra metà del cielo per non incorrere in cocenti delusioni, ma questa volta sbagliavo, il resto non era male in fondo, alto, fisico asciutto e prestante, spalle larghe e lunghe leve, la mia aitante figura  attraeva quanto basta l'immaginario erotico della femmina . Come sono animalesco! Insomma cuccavo alla grande,anzi avrei potuto cuccare alla grande se solo avessi provato a farmi avanti, il problema era tutto lì, anche quando me la mettevano sotto il naso non me ne accorgevo.

Come quel mattino nel laboratorio di fisica quando una certa Teresa, bionda e giunonica cittadina di Topolinia, tentò di farmi capire con parole e opere che era lì , pronta a togliermi il fiore della verginità.  Anche quel giorno , nonostante le inequivocabili carezze, i lascivi sfregamenti e le peccaminose effusioni ,  i molteplici tentativi insomma di seduzione messi in atto dalla licenziosa fanciulla approfittando del buio calato nell’aula , non riuscii a capire un beneamato e, tanto per non smentire la mia fama di grullo,  anziché assaggiare quella mercanzia di qualità generosamente offertami dall’ arrapatissima compagna  preferii continuare  a seguire la lezione.

La biondina , preso atto che non riusciva a cavarmelo dalle mutande neanche con un cavatappi,  si trasferì demoralizzata a Perugia  e dalla sua nuova casa di via XX settembre cominciò a scrivermi tutti i giorni pregandomi di risponderle. Non me lo feci certo ripetere , se in fatto di sesso ero infatti un disastro , non sapevo nemmeno infilare un preservativo , con la penna me la cavavo piuttosto bene. Iniziammo così un fitto epistolario che si protrasse per alcuni mesi tra l’ottobre del 74  e il febbraio del 75, poi uno dei due – non ricordo chi – perse l’indirizzo dell’altro con buona pace dell’ente poste.

In quel tempo - come diceva qualcuno - andavo spesso a Fregene con Franco Giuffrida, fu lì che conobbi Mario, aveva un paio d'anni in meno di me e quella disarmante ingenuità che ti spinge a farne l'elemento adatto ad ogni tipo di scherzi, scaturì così dal mio cervello ottenebrato da stravaganze perverse l’invenzione del  sexy-down.

Nel tardo pomeriggio di una torrida domenica di luglio,  storditi da una lunga giornata ad impigrire al sole  , tornavamo dalla consueta gita al mare trascorsa , com’era frequente in quel periodo , tra gli ombrelloni e le sdraio dello stabilimento balneare  dell'aeronautica  militare a cacciare provocanti topine in succinti bikini ed eccitanti  perizoma. Ciondolavamo pigramente cullati dal rollio monotono del pullman,  quando la mia mente malata  inventò la favola da propinare al tenero Zonfrillo.  Raccontai con dovizia di particolari piccanti che insieme all'amico Franco ero socio onorario del Sexy Down, una sorta di casa di piacere, un club privè  per sole donne, dove , impenitente corridore di gonnelle, svolgevo con dedizione e seria professionalità il prestigioso mestiere di mercenario del sesso pagato profumatamente da annoiate signore dell'alta società.

Lo sventurato compagno di viaggio ascoltava con vivo interesse le colossali  panzane che gli propinavo spalleggiato da Franco che aggiungeva di tanto in tanto frizzanti aneddoti rendendosi così complice della burla, da allora quegli snervanti  viaggi in autobus nella canicola estiva diventarono meno noiosi.

Non credevo che avrei ripreso in mano la penna per ritoccare questo mio lavoro vecchio ormai di diciassette anni, non pensavo certamente  di dare un seguito alla "Fotostoria di casa mia" eppure eccomi qua a rimestare nel pentolone dei ricordi, i pensieri sgorgano dal pozzo del tempo passato e vagano incerti sbattendo da una tempia all'altra in questa calda notte di luglio.

La famigliola è al sicuro nell'appartamento preso in affitto a Ladispoli mentre il temporale fuori tenta invano di rinfrescare l'aria afosa e inquinata di viale Libia ed io, nel silenzio rotto soltanto dal crepitare dei tuoni ,riscopro il desiderio di rincorrere momenti smorzati dal tempo, ricordi sbiaditi nel bianco e nero di tanti anni fa.

Mi alzo lentamente dalla sedia e giro attorno alla scrivania per abbassare il volume dello stereo, è tardi, la gente a quest'ora dorme, al solito sono sempre loro, i Genesis, a farmi compagnia,  ricordo   quando me li sparavo a tutta manetta, lo specchio riflette una faccia diversa, ti sorprende trovare le rughe dei giorni stampate sulla fronte, ormai stempiato scopri tra i capelli guizzi bianchi sempre più frequenti e con le dita tracci la linea delle guance ruvide, niente di drammatico si diventa vecchi.

La carretta da tirare avanti, tre figli da crescere e tanti cazzi per la testa, ho avuto giorni migliori, ricordo con nostalgia quando il mio unico problema era quello d'amare con tutte le mie forze ed ora, che d'amare non son più granché capace ,si muore di malinconia.

Bando alla tristezza e torniamo  al periodo ginnasiale cercando di ricomporre il puzzle della memoria , tante tessere saranno andate perdute nelle pieghe del cervello,  saranno finite ,chissà, in qualche cassetto della mente, ma non mi perdo d'animo proverò ugualmente a rintracciarle nelle tasche dei ricordi.

 D'accordo! Sono prolisso, faccio un  uso smodato di aggettivi, qualche linguista  fondamentalista amante della frase disadorna potrebbe aversene a male, a volte mi rendo conto di esagerare ,mi lascio prendere la penna da eccessi di retorica ma cosa volete farci ? Intrappolato nei miei tortuosi e cinici sofismi rappresento in fondo l'esempio scrivente del maturato classico con un indirizzo barocco tendente al rococò difficilmente digeribile, la mia opera non può che risentire dell’indigestione di classici fatta al liceo. Vedete? Insisto.

Con l'arrivo degli anni di piombo si cominciò a fare sul serio anche in amore e furono cazzi amari, mi capitò così d'inciampare nel primo bacio nei pressi di villa Ada ,una maldestra dentata contro le labbra socchiuse di una certa Mariella che non credo  restò molto soddisfatta della mia performance ,  il giorno dopo infatti ,  durante una sonnacchiosa festa , già limonava con un altro ed anche quella storia, more solito, finì ancor prima di cominciare.

Dimenticai Mariella, molto presto, tentai di scordare Nunzia, prova molto più ardua, poi incontrai Tiziana  soprannominata Cicala, non stava mai zitta, ho già parlato di lei e del suo reggiseno rosa, ricordate?

Tenera, deliziosa un amore breve ma troppo intenso per poterlo dimenticare in fretta soprattutto perché le volli bene, al solito, in quel cazzo di paesetto sprofondato in mezzo ai monti.  Purtroppo tra noi due c’era Gianni , suo filarino cittadino e mio spietato rivale , a mia disposizione un solo mese estivo , per lui tutto il resto dell’anno , inutile insistere , non c’era partita. 

L’estate successiva  si rifece vivo in paese dopo un lungo periodo d’assenza il mio primo amore, l’eterea Santina, non era cambiata, anzi sì, ma in meglio. Non era più soltanto la graziosa ragazzina di tanti anni prima ma una sventolona mora e appetitosa da spogliare con gli occhi, e a questo , è ovvio,  mi limitai .

Tornammo amici , facemmo coppia fissa e trascorremmo le vacanze incollati come una figurina all’album dei calciatori, lei con la fissa della tintarella , io con quella della topa d’occasione. Quella sua fissazione non  aiutò certo i miei più bassi istinti a starsene al loro posto , non faceva altro che togliersi la camicetta e stravaccarsi al sole invitandomi a fare altrettanto dovunque ci trovassimo , al campo della Retta, sul muricciolo accanto al  bivio e persino sul tetto dell’ossario del cimitero, era nero e la piccola sosteneva che  avrebbe  attirato i raggi del sole assicurandoci  un’abbronzatura a prova di bagnoschiuma.

Mi prestai com’era logico al suo provocante gioco con  affettata  non chalance  sperando in ulteriori sviluppi di ordine godereccio, rimediai soltanto numerose ustioni  e ripetuti crampi al mio inutile apparato riproduttivo , ancora una volta i miei freni inibitori avevano miracolosamente tenuto, in altre parole ero andato nuovamente in bianco.

La toponomastica ,nel senso di studio della topa , insomma non era il mio forte , non ero ancora riuscito ad avvicinarmi abbastanza da mettere a fuoco la materia , era evidente  che perdevo la coincidenza anche quando quella misteriosa pietanza mi veniva servita con mestiere . 

Così,  prima di celebrare il de profundis al mio prezioso generatore di spermatozoi decisi che sarebbe stato meglio , per il momento, soprassedere  e coltivare altre passioni , tra queste, come già accennato, privilegiai la musica e il pallone.

Una miniera pressoché inesauribile di memorie e sensazioni di quegli anni , per me così importanti,  è il fitto scambio di corrispondenza  che,  tra l’ottobre del 1974 e l’aprile 1976,  intercorse tra me e la mia cara amica Elsa, pagliariccia doc e preziosa compagna di viaggio di quei giorni, epistolario che le chiesi , qualche anno più tardi, di battere a macchina – aveva appena conseguito il diploma di dattilografa – e raccogliere  in un dossier che feci  rilegare. Lo  troverete senz’altro da qualche parte impolverato tra i ripiani della libreria, un libricino verde prato. Ricorrerò a quelle pagine quando si tratterà di  scavare nella memoria per estrarre qualche particolare avvenimento sfuggito a questa gelatinosa massa di neuroni ingrigita e ormai in disarmo  , vedremo insieme cosa ne salterà fuori .

Anche per quella tenera amica di penna , è ovvio, finii per provare ben altro che il disinteressato sentimento di una semplice amicizia e non ebbi difficoltà a confessarglielo , ma lei era fidanzata a doppia mandata  ed io un incurabile rincoglionito . Quando,  qualche anno dopo  , i ruoli s’invertirono,  ad avere una , sia pur instabile,  relazione  ero io, ad essere libera e confusa lei, forse un’occasione persa, quasi certamente un destino segnato.

Questa la candida prefazione , scritta di getto il 1° ottobre 1976 da un ingenuo ragazzino di 19 anni, che introduce quello sterminato zibaldone d’ intuizioni, emozioni e avvenimenti, introduzione cui non apporterò correzioni di sorta : 

C’è un periodo nella vita di ogni persona che non si dimentica, è questo il momento in cui si assapora tutto il bello e il brutto della nostra esistenza e s’impara a discernere il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso.

E’ il periodo in cui ci capitano tutte le esperienze necessarie per entrare a far parte di questo mondo a pieno titolo.

Tutto quel che sognavamo o temevamo durante l’ adolescenza accade di botto e noi non possiamo che accettarlo passivamente.

E’ certamente il momento più bello della nostra vita, forse il più spietato, osserviamo i nostri ideali frantumarsi e riemergere diversi senza nemmeno  accorgercene , sono certamente questi gli anni più dolci e affascinanti.

Queste pagine sono la testimonianza di quell’ epoca che con le sue difficoltà e il suo fascino mi ha formato e insegnato ad amare la vita o abituato a farlo.

E’ , purtroppo,  un attimo fuggente, il tran tran quotidiano crocifiggerà i nostri fantastici ideali e ci costringerà ad adeguarci a scambiare il giusto con l’ingiusto, il vero con il falso, e quel periodo in cui ci sentivamo veramente liberi svanirà senza lasciare traccia se non nei nostri ricordi , memorie di cui saremo sempre gelosi.

L’insolito luogo preposto alla stesura delle lettere era il più delle volte il cesso padronale , la spiegazione la troverete in queste poche righe d’introduzione alla mia prima missiva del 1° ottobre 74 :

“ …mi appresto a scriverti in un posto non proprio indicato per farlo, ma è l’unico dove c’è la chiave e non possono venire a scocciarmi…avrai capito no?”  

A catalizzare l’attenzione  dei miei amici in quel periodo , oltre agli ammiccanti  fondoschiena di ragazzine provocanti, i barbosi e interminabili incontri di tennis trasmessi in tivù.   Erano infatti  gli anni d’oro di Adriano Panatta , cadenzati dalle sue avvincenti sfide con un biondo e atletico campione  del nord europa, lo svedese Bjorn Borg , e , considerato che di calci al pallone non se ne riuscivano più a dare e gran parte della comitiva  si era data a quell’elegante  sport d’ elite   , provai anch’io a scendere sul  rettangolo in terra battuta negli assolati campi da tennis di via Oslavia . Purtroppo non tardai  a rendermi conto che  quella raffinata disciplina sportiva , divertente ma decisamente inadatta alle mie mani da fabbro ferraio, non faceva per me , così , lasciata la racchetta a bordocampo tornai ad indossare maglietta e pantaloncini da calcio certo che,  prima o poi , la vecchia cara sfera di cuoio a rombi bianchi e neri sarebbe tornata di moda.

Al liceo ero un autentico disastro, il Giulio picchiava duro, traggo da una lettera del 10 novembre 1974 la frase che chiarisce qual’era il mio profitto scolastico nel primo bimestre di quell’anno:

“… a scuola le cose non vanno proprio bene, 3 al compito di latino e 4 e ½ a quello di italiano, ma non me ne frega niente, per me quest’anno mi possono proprio bocciare…”

Non era vero , ed anche se la  pagella del febbraio 75 , riportata in fondo alla pagina per dovere di cronaca , aveva assunto  il preoccupante aspetto di un passaporto per la bocciatura , non mi persi d’animo,  mi misi sotto per riguadagnare la china e trascinai a settembre solo due materie , latino e fisica, poi, con un ultimo sforzo completai il prodigioso recupero nella prova d’appello di fine estate.

 

 

orale

Scritto

Italiano

5

5

 

Latino 

5

5

 

Greco                     

4

5

 

Storia                      

6

 

 

Filosofia               

6

 

 

Matematica            

4

 

 

Scienze                     

4

 

 

Religione                

molto

 

 

Condotta                  

9

 

 

Fisica                      

5

 

 

Storia dell’arte      

5

 

 

Educazione fisica     

5

 

 

 

 

Come capitava di sovente a quei tempi a migliaia di ragazzi della mia età venne anche per me il momento di  suonare in un complesso, l'eminenza grigia del gruppo era il mio compagno di banco, lo stravagante Giacomo Cillo, un geniaccio mezzo fatto alla Syd Barret fumatore incallito di puzzolenti Rothmans , sicuramente l'amico che più di ogni altro segnò con la sua  spiccata personalità quei giorni particolari in cui si cresceva per diventare grandi .

Dapprima lo accompagnavo in un garage nei pressi di via Mascagni dove si esibiva con alcuni coetanei , poi, visto che anche per me la chitarra era diventata una buona amica, acquistammo qualche strumento usato e cominciammo a strimpellare insieme.

Giacomo aveva già realizzato un suo mostruoso progetto musicale, la stesura di una grandiosa opera psichedelica, "Orgasmo tra vita e morte in una stanza d'albergo" , l'allegra brigata di menestrelli si mise al lavoro e in poco meno di un mese incise la lunga suite che ancor oggi conservo tra le mie reliquie post-adolescenziali.  L'autore alle tastiere e alla chitarra acustica, Franco Giuffrida al basso, Nicola Perrone alla chitarra classica, Fabrizio Sarti Magi alla batteria coadiuvato dallo stesso Giacomo e da Fabrizio Tiddi alle percussioni, il sottoscritto alla chitarra elettrica, tecnico del suono Andrea Tani, curioso esemplare di pianista di conservatorio, certamente il più dotato musicalmente tra noi, che preferiva  registrare i brani su un vecchio registratore a bobine obsoleto già a quei tempi , piuttosto che suonare con noi.

L’improvvisato studio di registrazione venne installato nella sala da pranzo dell'artefice di  musiche e testi ,al quarto piano di un palazzone di via Tigrè , il suo sciagurato cane abbaiava disperato ,la vescica pareva esplodergli, ogni volta che uno di noi si dirigeva verso la porta dell'appartamento elemosinava una passeggiata con lo sguardo implorante  ed  il guinzaglio in mezzo ai denti .

Infine ,misericordioso ,rientrava il padre di Giacomo ,sfigatissimo patologo legale, non osava neppure avvicinarsi  a quelle inquietanti figure al di là della porta a vetri che picchiavano sui tamburi e sodomizzavano le chitarre, passava accanto alla camera da letto dove spesso qualcuno di noi s'intratteneva ,diciamo così, con disinibite fanciulle , prendeva quella povera bestia incontinente e l'accompagnava fuori per liberarlo del suo scomodo fardello ma soprattutto  della nostra deleteria presenza.

I clacson delle auto strombazzavano impertinenti ogni qualvolta il paziente Andrea, ottenuto a fatica l'assoluto silenzio, dava inizio alla registrazione, eppure nonostante tutto questo, malgrado la limitata preparazione musicale degli artisti , a dispetto della penuria di mezzi a disposizione,  il risultato fu niente male, restammo stupefatti della qualità della registrazione o meglio ,a dirla tutta, certamente più fatti che stupe se consideriamo la quantità industriale di fumo da canna che galleggiava nella stanza e si respirava durante le prove.

Un paio d'anni dopo la bizzarra formazione, scioltasi subito dopo la registrazione dello straordinario album d'esordio, si riunì per una storica  esibizione insieme ad  altre band del quartiere all'ex cinema "Boito" oggi teatro "La Cometa" , assunse per l'occasione il  nome di "Prima Teatrale" offrendo uno spettacolo miserevole, ottima la musica, bravi i musicisti, ma allestimento da dimenticare, jack che si staccavano, microfoni rotti e altri vari casini da "oggi le comiche"…mai più si ripeté il drammatico evento.

In quei giorni ci si riuniva sotto casa di Franco in via Ogaden.

Prima d’allora per stanare la selvaggina io, Franco e Mauro , autentici nomadi del sesso,  ci  eravamo sfiancati in lunghi  pedinamenti  lungo i marciapiede del quartiere dietro a culi da infarto di vanesie ragazzine in calore  che assai raramente avevano sortito i risultati sperati .Abbandonata così una tattica tanto  improduttiva quanto faticosa , ci trasformammo in curiosi animali stanziali metà uomo,  metà utilitaria che , appoggiati alle auto in sosta o in sella a motorini abbandonati, aspettavano con fiducia e pazienza che i culi di cui sopra venissero a domicilio ed intanto trascorrevano interi pomeriggi a chiacchierare, cazzeggiare e ascoltare le voci dei nuovi conduttori delle neonate radio private della capitale -  su tutte Radio Roma International -  esaltandosi con le inebrianti note dei brani rock in scaletta.

Eravamo in tanti.  C'era Marcello Rodio, detto Frodio o Rodiolimoni a causa del suo discusso fidanzamento con una ragazzina molto più giovane di lui Simona ribattezzata Sisona  -   lascio a voi d’indovinarne il motivo -  non mancava naturalmente Franco Giuffrida che era in fondo il padrone di casa, veniva di tanto in tanto Mauro Rosso, l'unico centauro del gruppo, scendeva da Monte Sacro Mario Zonfrilli alias Fantozzi ,di cui ho già scritto in occasione dei miei illusori cimenti erotici al "Sexy down", si univa a noi talvolta , quando non era impegnato  con una certa  Silvia - misteriosa giovinetta fiorentina sconosciuta a tutti noi - Fabrizio Sarti Magi, Sarte o Ciccio per gli amici , paffuto amico che qualche anno più tardi sconvolgerà la mia vita presentandomi colei che sarebbe diventata mia moglie – ne parleremo più avanti - e ancora Fabrizio Ferzi, Capo ,  Maurizio D’auria, soprannominato Fallito solo perché aveva qualche anno più di noi , il biondo e piacente Massimo , Max o Montato,  mio cugino Fabrizio detto Wozz, e Nicola Perrone chiamato da noi tutti in confidenza  Nano, indimenticabile  il suo tormentone “Ehi Vaccaro !”

Tra tanti giovinastri in calore in quella strada malfamata razzolavano poi pericolosamente alcune adolescenti in odore di crescita che allevavamo con cura e abnegazione in attesa di ulteriori carnali sviluppi.  Le più presenti Melina, la sorella di Franco, Quilma Cocciante, Cozzante o Pallina, Letizia , Furga o Ml, Rita, Burina, Nunzia, Badula, Tiziana Sandonnini, Bella Gioia o Sancrostini, Tiziana Cappellari , anche detta Cazziamari perché non te la dava neanche a morire.

Ognuno di noi aveva avuto una storia con una o più delle passerine sopracitate o intratteneva qualcosa che poteva somigliare ad una relazione.

Franco mollata Quilma era passato a lavorarsi Letizia, Nicola, dopo aver impalmato  in ordine cronologico , Silvia, Quilma e una tal Rossella fornicava assiduamente con la piccola Melina avallando l’assunto,  perfettamente simboleggiato dall’inequivocabile gesto a pistola, che riconosce ai bassi di statura notevoli dimensioni  all’ apparato riproduttivo  .

Anche il cuginastro Fabrizio  s’era dato furiosamente da fare, prima aveva castigato in rapida successione  Marilena, Chiara e Sonia poi s’era  finalmente acquietato accanto ad una tal  Rita, rupestre ragazzotta della provincia laziale che per lui era  Ladonnavera per noi semplicemente Rita Burina .

Mauro , ispezionate con cura le mutande prima ad Antonella poi a Sandra, flirtava al momento con Tiziana Sancrostini , Marcello Rodiolimoni , dopo aver lasciato Marila tra le braccia di un tal Mario Gallo - un lungo pennellone che si mescolava alla plebaglia in qualche rara occasione  -  insidiava l’improbabile verginità di Simona.

In quanto a me , archiviate in un cantuccio in fondo al cuore le pratiche Mariella e Nunzia, restavo pazientemente in attesa dell’occasione buona studiando i classici latini , scrivendo canzoni e ascoltando  musica pop. L’unico a starmi al passo Mauro Rulli, altro sfigato in cerca di selvaggina a buon mercato.

Nell’imminenza  delle feste di Natale del 1974 si unì a noi il minuscolo Franco Vapo, così battezzato  dal gruppo  perché si guadagnava il pane cuocendolo al vapoforno di via Tripolitania ,  un ragazzo calabrese venuto a Roma per lavoro.  Viveva solo e questo significava per tutti noi finalmente avere a disposizione un comodo appartamento dove incontrarci , dare feste travolgenti e organizzare sfrenati baccanali senza genitori tra le palle.

Carolina era la sua ragazza , Daniela una sua amica che portò    con sé la notte del 31 dicembre a casa di Franco Giuffrida  per la rituale festa di capodanno, deliziosa , jeans aderenti, occhi chiari e lunghi capelli neri. Le chiesi di ballare, accettò di buon grado d'un tratto sollevò il capo , mi sorrise poi accostò le sue labbra socchiuse alle mie e mi baciò. Tanto per cambiare m'innamorai.

Anche quella relazione tuttavia non durò a lungo, furono sufficienti tre giorni nei quali non mi mollò un attimo, sembrava fosse pazza di me,poi inaspettatamente, senza darmi lo straccio di una spiegazione , mi mollò, si eclissò così com'era comparsa ,all'improvviso ,senza avvertire ,fece male, cazzo se fece male ! Un pugno allo stomaco da restare senza fiato, mi consolai pensando che in fondo quel legame era durato più degli altri, tre giorni, avevo battuto ogni record di durata.

Nel frattempo l'amico Franco aveva conosciuto Ml, Maria Letizia, in quel periodo trasformavamo, chissà perché, tutti i nomi di battesimo delle sorcette del quartiere in codici fiscali, era la "dirimpettaia del quarto piano", abitava infatti in Ogaden street in un principesco appartamento del palazzo di fronte, la piccola non era male e il mio ex compagno di banco se ne invaghì, se ne incapricciò, se ne infatuò e chi ne ha più lo metta dove gli riesce. Ops! Ancora una battuta da sudicia bettola di periferia!

"E …al popolo?" Direte voi.

 La vicenda assume rilevante importanza se si considera con la dovuta attenzione che ML era la sorellina minore di Mgr, Maria Grazia, gran pezzo di gnocca , diciott'anni, alta, bionda , un culo da brivido, zinne sode e gambe da collasso cardiocircolatorio con probabili gravi complicazioni, vi pare poco? Non per niente faceva l'indossatrice.

Pittrice di discreta fama colpiva l'immaginario erotico collettivo di noi neofiti della topa in maniera quanto mai aggressiva, ne parlavamo tutti con la bava alla bocca ,era per tutti noi il sogno nel cassetto.

Una sera, si oziava tanto per cambiare sul solito marciapiede, Franco mi confidò che la procace "cognatina" non avrebbe disdegnato di cornificare il suo partner con il sottoscritto, col culo che mi trovavo avevo appena iniziato la mia storia con Daniela, risposi quindi risentito che non l'avrei mai tradita.

Ancora un rigurgito di idiozia. Tanto fedele quanto stronzo visto gli avvenimenti che seguirono, come ho già raccontato infatti l'avventura con Daniela durò meno di una settimana, tornai così sui miei passi tentando di fiutare se tirava ancora aria di corna, e corna furono!

Erano trascorsi pochi giorni dal primo dell'anno, la scuola non era ancora ricominciata ,i viali erano ancora agghindati per il Natale, io e il mio compagno di libidine, convocati dalle assatanate sorelline, c'introducemmo di nascosto nella loro abitazione approfittando dell'assenza dei genitori, e lì…Franco ebbe la sua "Letizia" io…tanta "Grazia" di Dio.

Sembrò fosse finita lì, invece qualche giorno dopo Franco e le due porcelline , organizzata una visita al Luneur ,m'invitarono ad accompagnarli, non mi feci pregare, un giro sulle montagne russe, due fucilate, ovviamente fallite, al tiro al bersaglio poi entrai con i miei amici nelle "Notti d'Arabia", esotica variante del tunnel dell'amore, ne uscii mano nella mano con Maria Grazia ,fu quello un momento topico - capita la sottile allusione? -  per la mia futura carriera di sventrapapere.

Arrivò anche per me la fatidica  prima volta , concretizzatasi – si fa per dire - tra il denso fogliame di Forte Antenne.  L’inospitale ambiente e le particolari circostanze in cui si svolse il laborioso  amplesso non mi aiutarono di certo, 9 di mattina , temperatura glaciale, terreno umido ed estremamente ripido  , rugiada scivolosa e gelida  sotto le chiappe , intenso traffico lungo i tornanti al di sotto della nostra precaria posizione , l’imbarazzante guasto all’impianto idraulico che m’avrebbe impedito  di godermela era nell’aria rigida di gennaio, la sola cosa che restò rigida quel disgraziato giorno.

Un mese travolgente, la donna navigata mi spalancò insieme alle sue tornite cosce le porte del piacere, quella soglia sempre  sospirata ma mai varcata, va da sé che il focoso amante, finalmente iniziato ai pruriginosi godimenti della carne -  come sono brutale quasi laido - s'innamorò perdutamente senza riflettere abbastanza sulle inevitabili complicazioni che questo avrebbe comportato, questa volta infatti c'era di mezzo un roscio gigantesco campione d'arti marziali che la provocante adescatrice si guardò bene dal mollare tenendo, per il momento, le mani in due slip.

Il rivale in questione , resosi conto del peso che gli gravava sul teschio, chiese ed ottenne un incontro chiarificatore con lo scomodo amante, mi recai senza paura all'appuntamento, una sorta di "mezzogiorno di fuoco" che però si svolse "alle sette della sera", da chiarire c'era ben poco ,mi spiegò che per lei sarei stato soltanto un capriccio , sciorinando i mille motivi per i quali avrei dovuto troncare la relazione, tentò d'intimorirmi minacciando dure ritorsioni qualora non avessi aderito alle sue richieste. Rischiavo di finire al traumatologico in prognosi riservata, ma , come recita il celebre adagio , tira più un pelo di fica che una pariglia di buoi , così finsi coraggio e tenni duro per proseguire la difficile strada ormai intrapresa, strada  che non avrebbe potuto condurmi molto lontano.

Dal momento che le disgrazie non vengono mai sole avvenne poi che il mio intimo fratellino, rimasto fino ad allora penosamente disoccupato, decise di scendere in sciopero proprio in quel momento, cercai di scuoterlo come non avevo mai fatto prima, di parlargli, di fargli capire che non era il caso di fare lo stronzo proprio adesso , tentai l'impossibile,  prima con le buone poi con le cattive ma fu tutto inutile.

Non che si rifiutasse di scattare sull'attenti di fronte a tutto quel ben di Dio, faceva il suo dovere e il piacere della sottoposta -  sempre più sordido!  - menava! E menava alla grande! Ma quando arrivava il momento di appagare anche il suo fratello maggiore reclinava quella testaccia di cazzo che si ritrovava rintanandosi impaurito  nelle mutande.

La brava fata inguainata in una guépière nera fece del suo meglio per stimolarlo ma l'astensione si protrasse per l'intera durata della nostra appassionata relazione .

Mi recai persino dal medico la cui diagnosi fu che il coglione, senza voler mancare di rispetto ai suoi due pelosi ed inutili assistenti caricati a salve, era troppo sensibile, poverino, e non sopportava l'idea di dover  coabitare con quell'altro. Conflitto d'interesse tra colleghi insomma, nel momento cruciale cadeva  inevitabilmente in depressione .

Lo possino ammazzallo!

Un’autentica delusione.  Dopo anni di scrupoloso e metodico allenamento con il tradizionale  modulo 5 – 1  , dopo averlo curato amorevolmente e colmato di attenzioni acquistando per lui le migliori riviste porno  - non esitando a diplapidare per questo l’intero plafond di un  mese di paghette -  dopo averlo svezzato e cresciuto a prezzo di tanti sacrifici per una tale sospirata evenienza ,  proprio adesso, nell’ imperativo momento delle decisioni irrevocabili si rifiutava  ostinatamente  di sputare e cadeva esanime in un imbarazzante stato di apparente catalessi.

Immancabilmente, dopo trenta giorni esatti da quella gita al Luna Park, anche la mitica Maria Grazia mi diede il benservito, non ricordo neppure come, per giorni mi tormentò rischiando di asfissiarmi con la sua furiosa gelosia. Un esempio? Eccovi serviti:

Amore,

in questo momento tu sei a scuola e la cosa mi fa veramente rabbia perché intorno a me è tutto silenzio ed avrei tanta voglia di dividerlo con te.

Il cielo è chiaro ma fa freddo ed io lo sento anche dentro casa perciò mi sono messa addosso un altro maglione. Sono le 9.

Ti scrivo perché mi va in qualche modo di sentirti vicino, più vero, più reale, più mio; mi secca a morte sapere che ora  i tuoi pensieri sono distolti da me ed odio i tuoi professori, i banchi si scuola, i bidelli, i tuoi compagni, tutto il Giulio Cesare insomma, perché sei lì dentro ed io non posso vederti. Sono molto possessiva e gelosissima, anche di tua madre , figuriamoci quindi di tutta quella gente!

Ma che ci faccio io alle donne!?

Voleva avermi sempre vicino, rischiai di perdere anche l'anno scolastico per rimanerle accanto in ogni momento, poi ,d'un tratto finì tutto così come era iniziato.

Dapprima lasciò il mio rivale, poi pentita tornò da lui e mollò me, in una curiosa telefonata d’addio tentò di spiegarmi che pur amando me non poteva chiudere quella relazione ad un passo dal matrimonio, “cazzate!” – pensai – poi presi a calci la dodici corde, uscii di casa e andai a sbollire la rabbia lungo il ponte delle Valli.

Il cielo era cupo e minacciava un temporale, faceva freddo , un vento gelido spazzava le strade , cominciò a  piovere  , un’acquerugiola sottile ma insistente, tentai di deglutire per sbarazzarmi di quell’ imbarazzante groppo in gola , tentai di trattenere il pianto ma fu tutto inutile , le lacrime si mescolarono alla pioggia che cadeva sempre più fitta, i singulti al rumore delle auto che sfrecciavano sul viadotto e, ogni tanto, a una scoreggia che disperdeva il suo fetore tra i fumi dei gas di scarico.

Fu dura dimenticarla.

La rividi qualche anno dopo in abito bianco montare su un’auto d'epoca, il cuore ancora ferito mi balzò in gola e un nodo la serrò lasciandomi senza respiro.

Trascorsero lenti altri quattro mesi poi incontrai Marina, il primo vero amore, nei due anni e mezzo in cui rimasi con lei , vagheggiando progetti irrealizzabili e fantasticando una vita insieme, compresi l'autentico significato della parola “amore", fregnacce da ragazzini, ne parleremo tra breve.

Nel frattempo nell'appartamento di piazza Gondar al civico 14 le giornate scorrevano più o meno tranquille tra alti e bassi, Piero era stato  il primo ad andarsene per mettere al mondo tiddini nuovi di zecca e proseguire così la stirpe. Dopo la laurea in legge e il servizio militare decise d'attaccare il preservativo al chiodo e propose a Giuliana, sua fedele compagna dai tempi del liceo, di coronare col matrimonio il lungo fidanzamento, la scaltra fanciulla dapprima tentennò poi, conscia d'avere sottomano pur sempre un Tiddi, anche se doveva contentarsi del brutto anatroccolo della nidiata, non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione e finì per accettare.

Il giorno delle nozze incrociai durante la cerimonia una ragazzina di tredici anni, cugina della sposa, tale Letizia Maria, non ci degnammo di uno sguardo, quattro anni dopo le nostre strade tornarono ad intrecciarsi per tutt'altri motivi senza conoscere minimamente i nostri sia pur lontani rapporti di parentado, ancora tre anni e finimmo per  imitare mio fratello e sua cugina applicando sull'uscio di casa una seconda targhetta con la stampa "Tiddi-Liotta". Torneremo sull’argomento quando sarà il momento.

Il letto di Piero, sistemato nello studio di papà ,era ancora caldo quando calai come un avvoltoio sulla preda e me ne impossessai lasciando finalmente in pace quel morto di sonno di Paolo , da quel momento in poi avrebbe potuto riposare tranquillo nella camera fino ad allora divisa con quel turbolento fratellino per il quale non veniva mai l'ora di andare a dormire. Le sue tribolazioni ebbero finalmente termine e , non più molestato dall'assordante ritmo dello stereo sparato a tutto volume né dal suono aspro della chitarra elettrica,  da quel giorno tornò a dormire come un pupo.

La nuova stanza ovviamente durante le ore del mattino e del pomeriggio era zona "off limits" perché occupata dal laborioso genitore, ma la notte diventava  il mio regno inespugnabile , non dormivo più, componevo criptici testi e svenevoli musiche per le mie canzoni e ascoltavo in cuffia fino al mattino i brani dei Genesis, dei Pink Floyd o dei King Crimson sognando ad occhi aperti canne, sorche e rock & roll.

La scellerata storiella con Maria Grazia m'aveva cambiato ,ero ormai più smaliziato non cadevo più ai piedi delle donne com'era accaduto fino ad allora, cominciavo finalmente a conoscere la vera natura di quelle strane creature tanto desiderabili quanto incostanti, capricciose e, diciamolo pure, un tantinello stronze.

Nel maggio del 1975, frequentavo il secondo liceo, conobbi Marina, questa volta non fu un colpo di fulmine, mi piaceva, niente di più, così, quando un soleggiato pomeriggio in quel di villa Ada le chiesi di diventare la mia ragazza , non mi batteva forte il cuore né sarei rimasto deluso più di tanto se la sua risposta fosse stata un no, ma non lo fu e, come spesso accade, la simpatia, come un torrentello in piena, maturò trasformandosi giorno dopo giorno in un sentimento sincero che sgorgò nel mare del primo grande amore. Toccante è?

Passarono in fretta i primi due mesi scanditi dalle musiche struggenti  del Guardiano del faro , dalle voci in falsetto dei Cugini di campagna e dalle canzoni di Claudio Baglioni indispensabile leit motiv dei deliranti amori di quegli anni,  poi il destino, che ha la perniciosa disposizione a complicare le cose, ci mise il suo zampino, avevamo appena cominciato a conoscerci quando l'estate ci divise.

L'anno scolastico era appena finito , avevo faticosamente ottenuto una stentata promozione, come al solito m'aspettava il Paradiso in terra dove distendere le ossa e riposare le mie stanche meningi provate da un anno di snervante studio dedicandomi al mio sport preferito l'eccitante caccia alla topa villeggiante.

Questa volta però Pagliara pareva una destinazione quasi sgradita, qualcosa non andava in me, durante l'anno scolastico avevo contato i giorni, che mi separavano dalle vacanze estive, ma niente era più lo stesso anche gli amici non erano più quelli di un tempo, la maggior parte di loro s'era fidanzata e i componenti della comitiva, una volta inseparabili, cominciavano a distaccarsene defluendo in piccoli rigagnoli di coppie che preferivano star sole.

E poi…mi mancava qualcosa. Non impiegai molto a capire cosa, era lei, ad un primo attimo di spavento subentrò una tenera malinconia e quel senso d'inquietudine che ti fa star male, ma tanto male da farti sentire bene.

Cominciammo a scriverci tutti i giorni per stare più vicini e questa volta presi a contare le ore che mi dividevano dal ritorno a Roma.

L'aria fresca di Settembre ci vide di nuovo insieme e questa volta capimmo di volerci davvero bene, iniziammo a vederci tutti i giorni divenendo inscindibili ,ciascuno dei due entrò di prepotenza nella vita dell'altro, io feci conoscenza con i suoi genitori lei con i miei, per la prima volta avevo una ragazza con tutti i crismi dell’ ufficialità.

Presi a trascurare tutto il resto, il calcio, la musica, gli amici, sapevo che sarebbe capitato prima o poi, agli altri del gruppo era successo prima di me e non ci trovavo niente di strano, stavo diventando grande.

L'ultimo anno di scuola, quello della maturità, si poteva ormai discutere di matrimonio, figli e lavoro, pensieri che non m'avevano neppure sfiorato fino ad allora, continuavo a vedere gli amici ma tutti noi conducevamo ormai due vite parallele, fino alle sette di sera con le nostre nuove compagne ,dopo il tramonto tornavamo a riunirci per chiacchierare di sport o per scherzare e spettegolare sulle nostre vicende sentimentali.

Lo studio quell'anno si fece, se possibile, ancor più impegnativo e faticoso, trascorrevo interi pomeriggi sui libri di testo insieme a Giacomo per preparare l'esame di maturità, quel poco tempo che rimaneva lo dedicavo ovviamente alla mia ragazza, ci si vedeva la sera dopo cena per passare qualche ora insieme e la domenica si andava insieme al mare, al lago di Bracciano o nei pressi di Colonna dove i suoi avevano una villetta.

Arrivò puntuale il giorno dell'esame e andò com'era sempre andato  tutto il resto , senza infamia e senza lode -  per scimmiottare Verdone -  la solita arrabattata sufficienza di cui mi ero sempre accontentato e di cui mi compiaccio ancor oggi per non farmi troppo male nel deprecato caso dovessi cadere dai pianti alti.

Poco prima della prova di maturità , l’8 marzo 1976 , mi ero presentato alla visita di leva dove non avevano avuto difficoltà - gli bastò osservare lo spessore delle  lenti e la mia inquietante magrezza -  a farmi fuori dichiarandomi “Riformato” senza appello .

Terminati gli studi ,in attesa di parcheggiare per qualche anno alla Sapienza  prima di cominciare a fare sul serio, le ore iniziarono a scorrere lente, avevo tempo, un'inconsueta novità per me.

Al mattino presto  venivo sequestrato da mia madre ,alle prese con le caldane della menopausa,  perché l’accompagnassi a fare la spesa quotidiana per mettere sul fuoco  pranzo e cena  . Arrivata infatti alla soglia dei sessant’anni la signora Tiddi non era più in grado  di uscire da sola per una sorta di labirintite che le faceva girare la testa , teneva insomma  , come soleva ripetere , la capa cincari cioncari . Piero era ad un passo dal matrimonio, Paolo studiava medicina ed Aurora aveva sempre da fare , quattro meno tre fa sempre uno, la matematica –dicono – non è un opinione anche se  per me lo è sempre stata, uno era il mio secondo nome . 

Il giro era sempre lo stesso , attrezzati con il nostro capiente carrello modello turbo elegance  attraversavamo sottobraccio la strada all’incrocio con il ponte delle Valli , sterzavamo a destra per portarci sull’altro lato di viale Etiopia e poi dritti fino a piazza Addis Abeba dove ci aspettava il nostro salumiere di fiducia, il burbero e simpatico sor Pietro. Due chiacchiere – forse qualcuna di più – i consueti acquisti -  pane ben cotto, prosciutto crudo , quello buono , e la solita mezza tonnellata di mozzarella di bufala per il dottorino che ne andava pazzo – poi raggiungevamo all’altra estremità  della piazza il grande  negozio di frutta e verdura, il mitico bottegone come veniva denominato dalla mia traballante compagna di viaggio.

Sbrigata anche questa seconda pratica voltavamo a destra per percorrere via Zanzur e fare una piacevole tappa al bar all’angolo con via Migiurtinia  per l’abituale colazione con cappuccino gonfio di schiuma e cornetto alla crema per me, caffè, necessariamente Hag , per la signora. Usciti satolli dal locale ci dirigevamo di buon passo – si fa per dire considerata la zavorra – verso la macelleria  dove la capofila faceva impazzire il povero proprietario, il pingue  e paziente sor Pace, pretendendo fette di carne di una tale perfezione – via grasso e carnicchi - che nemmeno negli anni a venire  l’allevamento  transgenico sarà in grado di produrre.

Il lento peregrinare tra piazza Gondar e piazza Addis Abeba andava avanti per i primi cinque giorni della settimana, al sabato però era necessario per coprire il fine settimana fare la spesa grossa ,come la definiva  Fernandella , si cambiava quindi  destinazione : dal portone subito a destra per percorrere tutta viale Somalia e raggiungere il mercato di via Fara Sabina,  un tragitto lungo e noioso che allora detestavo ed oggi vorrei tanto fare ancora una volta con lei, purtroppo il destino e la sanità pubblica hanno deciso altrimenti.

Marina era ancora con me ,erano ormai trascorsi due anni e mezzo da quel pomeriggio di maggio, tutto sembrava filare liscio, gite fuori porta, passeggiate mano nella mano, quel po' di sesso, saggiamente  dosato che non guasta mai -  almeno così credevo -  insomma tutti gli ingredienti  che caratterizzano una tranquilla vita di coppia, niente lasciava presagire  la tempesta che si sarebbe scatenata di lì a poco.

Senza rendermene conto cominciò ad allontanarsi da me, non avevo dato il giusto peso ad alcuni inequivocabili segnali, ero troppo sicuro di me ed ero certo che se uno dei due si fosse stancato dell'altro quel qualcuno sarei stato io non certo quella ragazzina perdutamente innamorata, mi sbagliavo, le prime incomprensioni i primi malintesi, i primi antipatici battibecchi poi, di colpo, mi lasciò come se quei mesi vissuti insieme, quelle emozioni condivise non avessero lasciato tracce nel suo cuore.

Aveva cominciato a frequentare degli strani tipi nella scuola superiore dove s'era iscritta nei pressi di San Paolo, nell'istituto giravano cannoni e femminismo spicciolo, non era più lei, stavo per fare la fine del roscio, dopo averla svezzata ero sul punto di perderla.

Durante gli ultimi incontri, non ho mai capito se facesse sul serio, cominciava a ridere come una scema senza riuscire a controllarsi, probabilmente era fatta ,completamente fuori di testa, cercai d'aiutarla ma non voleva più che  mi prendessi cura di lei.

Il candido Zonfrillo si vendicò in quell'occasione delle burle inflittegli ai tempi del "sexy down" cornificandomi in modo imbarazzante provocato dalle moine di quella bambina ormai smarrita, li pescai a pomiciare svoltato l'angolo di Piazza Gondar dopo aver trascorso il pomeriggio insieme, una fitta allo stomaco lancinante, qualcosa di terrificante, l'ultimo ringraziando Dio, dopo quella sera non mi capitò più, di lì a poco avrei incontrato una ragazza meravigliosa rendendomi conto ancora una volta, se ce ne fosse stato bisogno, che non tutti i mali vengono per nuocere.

Faticai a metabolizzare delusione e corna , ferite Marina ne aveva lasciate e profonde, non riuscivo a darmi pace e compresi  soltanto in quel momento il bene che le volevo, era stata d’altronde una relazione troppo asfissiante per una ragazza così giovane, il primo amore, è vero, non si scorda mai, ma questo non significa che sia indistruttibile, il desiderio di nuove esperienze  l'aveva spinta inesorabilmente ad allontanarsi da chi , per primo , le aveva voluto bene e fornito  materiale di prim’ordine per fare esperienza. L'avevo soffocata coprendola d'attenzioni, quelle premure che nessuna donna merita , oggi lo so, allora purtroppo lo ignoravo.

Anche se la piaga rimaneva aperta e la vicinanza di quel portone da casa mia contribuiva ad infettarla , il tempo, sia pur lentamente,  lenì quel giovane dolore lasciandomi finalmente sul cuore una spessa coltre di pelo che mi consentì di vivere meglio il resto della mia vita senza più credere alle favole. Scrissi l'ennesima canzone, "Non avrei dovuto credere" appunto, ero cresciuto ,  superando così la soglia dell'adolescenza dove tutto fa assai più male del dovuto.

La scuola era finita , mi restava la passione per la musica, quella per il calcio giocato -  assai meno per quello in tivù -   e l’hobby della fotografia, retaggio dei miei trascorsi con la mia ex .

La macchina fotografica era quella a soffietto soffiata – niente male il giro di parole – a papà , per pochi spiccioli avevo acquistato al mercatino dell’usato tutta l’attrezzatura necessaria per stampare i miei scatti, ingranditore, vaschette, acidi e l’indispensabile lampadina rossa  per la camera oscura. Ero diventato un autentico fanatico dell’obbiettivo, trascorrevo intere notti a duplicare vecchie foto realizzando grossolani fotomontaggi che farebbero inorridire gli attuali autori dei moderni programmi di fotoritocco per computer, dalle immagini fisse passerò qualche anno dopo a quelle in movimento, i risultati ottenuti saranno,  purtroppo,  ugualmente deludenti.

Il parco di villa Chigi, dove oggi accompagno il piccolo Gabriele da bravo papà, diventò l'abituale ritrovo del gruppo costretto ad allontanarsi dalla sede storica di via Ogaden a causa dei violenti e ricorrenti litigi con i residenti infastiditi dai continui schiamazzi di ragazzi in cerca di svago.

Partitelle a pallone senza risparmio d’energie fino a tarda sera sulla pista di pattinaggio trasformata in campo di calcio , le indimenticabili  accanite nelle quali due volte su tre il tempo di gioco finiva quando  il Supertela  finiva in bocca al solito cane di passaggio , incontri di boxe all'acqua di rose tra vecchi amici che se le davano di santa ragione e qualche disimpegnato flirt con arrendevoli ragazze indolenti, tutto questo il bagaglio di giovani annoiati che ciondolavano da una panchina all'altra senza intravedere sbocchi per il futuro.

Risale a quei tempi leggendari la mia prima ed unica apparizione televisiva, ero tornato libero, solevo ripetere, come un puledro selvaggio che mordeva il freno in cerca di nuovi brividi, non avevo pressanti impegni di studio, l'università era appena cominciata, tornai così a comporre canzoni nella penombra della mia tana notturna appena rischiarata dalla diafana luce dei lampioni del ponte delle valli.

Tentai la via del successo discografico con un primo provino presso uno studio di registrazione nei pressi di Mentana, con le mie adidas slacciate,  i jeans lisi , un ampia camicia rosso fuoco e la fedele "Eko"  dodici corde a tracolla montai sull'autobus che m'avrebbe potuto condurre  al glorioso successo nel mondo dello spettacolo, accolto dal tastierista dei Goblin proposi un paio di canzoni, un "ti faremo sapere " fu il laconico responso.

Qualche mese dopo mi fu inviata una musicassetta con la registrazione dei brani e la definitiva sentenza sulle mie capacità artistiche redatta su un anonimo foglio di carta nel quale si accennava ad una certa originalità dei testi non sorretta da altrettanto estro nella struttura delle musiche, costo dell'operazione diecimila lire faticosamente guadagnate nelle prime ore del mattino di una grigia domenica di novembre sulla logora scrivania di un gelido stanzone del  Totocalcio.

Non mi persi d'animo e ritagliato un annuncio su "Ciao 2001" nel quale si cercavano nuovi talenti, mi presentai al nuovo saggio in un appartamento al piano terra di un elegante palazzo nelle vicinanze di viale Regina Margherita.

Questa volta non sborsai un centesimo e le mie canzoni incontrarono il gradimento della "critica" che  mi propose di partecipare ad una specie di festival di nuovi cantautori che avrebbero dovuto esibirsi su un palco allestito di fronte Castel  S. Angelo, lo spettacolo sarebbe stato ripreso dalle telecamere di una TV privata e trasmesso successivamente sui teleschermi di migliaia di romani.

La sera dello show ,incoraggiato dal benevolo pubblico presente tra cui spiccavano le figure di Paolo e Cinzia , interpretai un paio di pezzi senza avvertire alcuna apprensione, qualche giorno dopo, come promesso, il concerto fu mandato in onda su Teleregione.

Non mi ero fatto soverchie illusioni, la consideravo  una bella esperienza e niente più, non ci credevo più di tanto, lasciai così quel sentiero che prometteva di inerpicarsi verso cime assai impervie  e probabilmente inaccessibili.

Un "discografico", un certo Berlini che aveva seguito la mia esibizione  m'invitò nel suo appartamento di via Tembien dove tentò di convincermi a tornare sui miei passi  per intraprendere la carriera artistica, non me la sentii e prima di imboccare definitivamente "via della Speranza" per rischiare di finire in "piazza Delusione" mollai tutto senza rimpianti e tante grazie.

L'ultimo deprimente rigurgito artistico di un cantautore inconcludente si concretizzò nell'incisione di un paio di musicassette dai titoli struggenti. ”Mio Mondo” , la prima, nella quale raccolsi una decina delle mie canzoni meno noiose e "Per Te con Te", la seconda, incisa con l'aiuto di mio cugino Fabrizio colto disgraziatamente dalla costosa mania dell' Hi.Fi. che all'epoca mieteva numerose vittime e l'aveva obbligato all' acquisto di un sofisticato registratore a più piste.
Percorrendo l'intero percorso a piedi trasportammo dalla mia stanza di piazza Gondar alla sua in via Gaetano Capocci il pesante e ingombrante organo da me acquistato con una pila di cambiali alta così - così come? Così ! -  nel settembre del 1976 dall’organizzazione Bagnini, diciotto rate da £. 32.500 da versare al 27 di ogni mese, praticamente l’intero ammontare della mia paghetta mensile.

Alternandomi alla voce solista, alla chitarra classica , a quella dodici corde e alle tastiere registrai su varie piste le tracce, ad amalgamare i suoni ci pensò il provetto tecnico del suono, un vero perfezionista.
La registrazione, effettuata tra il 19-20 e 21 aprile del 1977 del mio secondo ed ultimo album solista , “Per te con Te” appunto , fu un vero successo e la qualità del suono si rivelò ottima grazie alla nuova tecnologia, erano ormai trascorsi tre anni dalla mitica produzione del disco d'esordio di "Prima Teatrale".

Nel frattempo m'ero fatto un nuovo amico, si chiamava "Ben", vezzeggiativo di "Benelli" un ciclomotore d'occasione che mio fratello Piero aveva abbandonato per montare su veicoli più affidabili, in quel periodo non avevo alcuna voglia di prendere la patente , a me andava benissimo.

Fu il devoto compagno di una  singolare e felice stagione della mia vita nella quale le femmine, non so come, cadevano ai miei piedi come foglie recise dall'impetuoso vento della passione - Dio come godevo! - lo studio marciava alla grande - cinque esami nel primo anno d'università!- e soprattutto, grazie al Cielo, avevo finalmente smesso d'innamorarmi!

Mi trasformai in un abile funambolo sempre in bilico sulla corda dell’amore – scrivo come un redattore di Harmony -  il mio carnet era zeppo di nomi femminili e , assediato da un persistente ribollire d’estrogeni , amministrai tre avventure simultanee con altrettante topoline, nessuna beninteso che m'impegnasse più di tanto.  Né l'aria da ragazzina eternamente  imbronciata di Daniela, né la quarta misura del seno prorompente della dissoluta Giulia, né l’ allegro e spumeggiante sex appeal dell'esuberante Patrizia scalfirono minimamente il mio muscolo cardiaco.  Già, il mio non era più un cuore che si lasciasse andare , era soltanto il motore di un corpo dinamico e di un cervello finalmente sgombro da inutili sentimentalismi, forse un po' inaridito ma certamente più sereno.

Mai più inutile melassa!  Leggerezza, disincanto e un pizzico di romanticismo, questi gli ingredienti sufficienti  per equilibrate relazioni all’insegna del disimpegno.

Le lenti a contatto avevano senz'altro migliorato l'aspetto generale , il mio modo gioioso di vivere la vita , l'anticonformismo nel vestire nel background modaiolo di fine anni settanta e la proprietà di linguaggio retaggio dell'istruzione classica – oratore trascinante anche quando sotto la parola la sostanza latitava -  attiravano le ragazze come api sul miele . Stavolta erano loro ad invischiarsi nel mellifluo nettare dell'amore non corrisposto travolte dalla prorompente personalità del sottoscritto ,  dal suo seducente  charme e dall’inaspettato sbocciare dei germi letterari deposti anni prima sui banchi di scuola, trasgressivo ma mai omologato, eccentrico quanto basta.

Ammazza come scrivo!

Freddo e refrattario ad ogni abbandono sentimentale mi sentivo onnipotente! Convinto ormai di avere ottenuto l’assoluto monopolio della Topa.

Non me ne poteva frega' de meno! Stavo diventando meravigliosamente cattivo, inesorabile tombeur de femmes con modi sornioni e accattivanti  facevo strage di cuori restando immune dal quel letale veleno, conducevo tre sregolate vite parallele.

Ero diventato terribilmente e  splendidamente stronzo!

Sia ben chiaro non avevo illuso nessuno né le disinibite fanciulle sebbene ignare della mia doppiezza, anzi, triplezza, la prendevano troppo sul serio, andava benissimo così: dare senza pretendere più di tanto, era questo in fondo il segreto di un'esistenza serafica, meschina forse , poco emozionante  ma certamente più tranquilla senza le inevitabili pene e gli immancabili dissapori che una relazione più seria avrebbe comportato.

Venne il turno di Adelina, compagna di classe di mia cugina Fiorella,

un corpo da urlo, due poppe esagerate, lunghi capelli neri, grandi  occhi scuri, tutto a posto insomma o quasi, era strana, comunque all'epoca non andavo troppo per il sottile ed appena mi resi conto che era matura, spietato , la colsi.

Rude è?

Trascorsero un paio di settimane durante le quali diedi libero sfogo ai miei più bassi istinti tentando di inventare nuove posizioni che rendessero l'amore più intrigante ,poi qualche stronzo, il fratello mi pare, s'intromise e le proibì d'incontrarmi non lasciandola neppure uscire di casa.

La chiamai per qualche giorno al telefono, rispose sempre lo stronzo in questione impedendomi di parlarle, il sanguigno ed impulsivo Marco d'altri tempi sarebbe corso lancia in resta a liberare la donzella dalla torre del castello, ma quel generoso cavaliere aveva scelto di vivere un'altra vita ed era sceso da cavallo. 

Ero cambiato, niente a che vedere, sia ben inteso, con quel che sono adesso, ancora non avevo in corpo l'astio e la rabbia che mi divorano oggi, ma un primo decisivo passo era stato fatto nella giusta direzione, così lasciai perdere e continuai a vivacchiare tra flirt da "una botta e via" ,canzoni cantate a chissà chi e il pensiero rivolto all'incertezza del giorno dopo.

Ad interrompere quella piatta routine intervenne qualcosa di veramente grave, una prova drammatica che non avevo fino ad allora mai affrontato, il rischio di perdere una persona cara.

Era un tardo pomeriggio di un giorno qualsiasi, fuori faceva freddo, gennaio era appena incominciato e con lui l'anno nuovo, stravaccato sul letto nella mia camera ascoltavo un po' di buona musica ed osservavo,  vagolando tra i miei pensieri, i cristalli della finestra resi opachi dal contrasto tra il gelo oltre i vetri e il caldo che proveniva dai termosifoni accesi, Paolo rientrò ed andò subito a chiudersi in gabinetto.

Era trascorsa una buona mezz'ora quando sentii la voce di papà che non vedendolo uscire, gridò più volte il suo nome, non ci feci caso, poi il rumore di passi concitati provenienti dal corridoio mi scosse dall'indolenza ,  mi affacciai così sulla soglia della stanza e ravvisai un'espressione  attonita sul volto di papà che sollevatosi in punta di piedi tentava di sbirciare al di là del vetro opaco della porta del bagno.  Lo chiamò ancora ma senza ottenere risposta, a quel punto ispezionai anch'io oltre la finestrella e intuii una figura riversa sul pavimento, papà fuori di sé aveva preso ad assestare violente pedate alla porta nel vano tentativo di sfondarla, a quel punto intervenni, afferrai dal ripiano superiore dell'organo dove erano appoggiati  i pesanti bongos con i quali mi dilettavo la sera a rompere i coglioni ai vicini e con un colpo secco mandai in frantumi il vetro della finestrella, m'arrampicai appoggiando il piede sulla maniglia e riuscii ad intrufolarmi nella stretta fessura per soccorrere  Paolo ed aprire la porta dall'interno,  sollevai da terra il suo corpo inerte ed attraversato il corridoio  lo adagiai sul letto matrimoniale dei miei.

Il medico prontamente chiamato ci tranquillizzò affermando che non si trattava di nulla di preoccupante, nel frattempo Paolo si era ripreso ma continuava ad avvertire forti emicranie.  Da quel giorno mi resi conto che la medicina è una scienza tutt'altro che esatta infatti, per scoprire effettivamente cosa gli fosse capitato ,fummo costretti a sentire qualche giorno dopo, perdurando i lancinanti mal di testa ,il  parere  di un ortopedico che diagnosticò in breve che si trattava di un allarmante aneurisma cerebrale .

Il ricovero fu immediato e l'operazione al cervello altrettanto rapida, subentrò tuttavia un' ulteriore complicazione, un edema che a dare ascolto ai luminari che tentavano di curarlo difficilmente gli avrebbe dato scampo , sembrava spacciato, ma il Buon Dio ne ebbe pietà e lo riportò alla vita.

Mamma che s'era già incamminata da qualche tempo lungo il ripido sentiero di un grave esaurimento nervoso, aiutata in questo da alcune discutibili scelte del marito, con quest'ultima prova subì il definitivo tracollo finendo per diventare quella che tutti noi oggi conosciamo e critichiamo dimenticando ovviamente  quanto fosse stata forte e tenace prima di allora.  Le ovvie conseguenze invalidanti della malattia e del successivo intervento chirurgico, una parziale paresi degli arti, arginarono le aspirazioni di  Paolo che fu costretto  ad abbandonare gli studi di medicina intrapresi qualche anno prima, tutti noi non fummo più gli stessi.

Quella vita ripescata ad un passo dalla fine mi cambiò di nuovo, la fiducia ritrovata in quel drammatico frangente mi consigliò di approdare su una spiaggia tranquilla dove fermarmi a pensare, smisi di ridere sguaiatamente cercando di tornare semplicemente a sorridere.

Durante  quelle interminabili notti trascorse accanto al letto di Paolo in attesa del miracolo , scomodo ospite di quella clinica in cima alla collina nei pressi di via di Tor di Quinto insieme a Cinzia sua promessa sposa,  mi fu accanto un vecchio amico che, dimenticato sugli scaffali della libreria per correre dietro alle ragazze, avevo ritrovato da qualche mese, Tex Willer.

Seduto sulla poltrona letto di quella stanza dove il tempo  si fermava tentavo d'interpretare le necessità di un fratello in bilico tra la vita e la morte che con la parola lontana anni luce dal cervello reclamava il pappagallo chiedendomi la lampada, in silenzio attendevo l'alba approfittando di tanto in tanto del tormentato riposo concesso a Paolo dalla malattia e della luce velata dei lampioni in strada per sfogliare un albo del capo dei Navajos e dei suoi pards.

Anche quell'alba agognata alfine arrivò, il tempo che pareva essersi improvvisamente arrestato tornò a dipanarsi lento o vorticoso secondo come stabilito dallo  stato d'animo del momento . 

Pochi giorni dopo le dimissioni di mio fratello ,  accanto al giaciglio del convalescente , sistemato nel lettone grande dei miei, era comparso  un cestino di vimini e all’interno di questo un cucciolo di pastore tedesco che impaurito aveva cominciato  a fissare gli astanti con i suoi occhioni zuccherosi  . L’aveva tanto desiderato un cane quel figlio  e mio padre, quasi si trattasse di un premio per essere tornato tra noi, aveva deciso di fargliene dono al suo ritorno dalla clinica . Ajak, questo il   suggestivo nome affibbiatogli,  in un primo tempo traslocò in via Gaetano Capocci nell’appartamento di Cinzia , poi si stabilì in pianta stabile a piazza Gondar -  croce degli spaventatissimi avventori dell’agenzia e delizia di mamma Fernanda -  finché, quando la sua statura si fece  ragguardevole  e  la sua presenza troppo ingombrante,  si decise il suo mesto ritorno all’ allevamento di origine dove -  immagino -  consumò  tristemente i suoi ultimi giorni.

Portarlo a spasso era diventata per me una piacevole abitudine, al ritorno dalle mie scorribande pomeridiane non mi dispiaceva affatto riuscire dopo cena per permettergli di espletare le sue,  ormai indifferibili  funzioni fisiologiche – anche se il compito sarebbe dovuto spettare al padrone  -  né mi pesava alzarmi presto al mattino per farlo correre a perdifiato tra l’erba alta e imperlata di rugiada dei prati di Villa Chigi.  Quando me lo portarono via ci rimasi molto male anche se la cosa passò probabilmente inosservata ai miei distratti congiunti  certi  che il più amareggiato dovesse ovviamente essere il legittimo proprietario.

Il rimpianto Ajak tuttavia non era stato il primo animale a varcare la soglia dell’appartamento di piazza Gondar – il sottile umorismo  delle vostre subdole allusioni non mi sfiora neppure -  dimenticavo di aggiornarvi sull'arrivo in casa Tiddi , qualche mese prima delle nozze di Piero,  di una vispa gattina , sfolgoranti occhi paglierini, pelo liscio e lucido , nero come il demonio , antitetico ad uno sbarazzino ciuffo bianco che si distingueva sulla pancia.

"Che", questo il nome che le avevo assegnato in onore del leggendario guerrigliero argentino , simpatica femmina componente la numerosa prole messa al mondo da qualche giorno dalla gatta della mia amica Tiziana, fece il suo ingresso clandestino nell'abitazione della famiglia Tiddi una sera come tante al ritorno del mio abituale girovagare. Guardingo la introdussi nell'appartamento di nascosto, poi, dopo averla chiusa nel bagno di servizio, allora scarsamente frequentato, me ne andai a dormire senza rivelarne la presenza al resto della truppa.

La gattina durante le ore della notte, sentendosi prigioniera cominciò inevitabilmente a miagolare e a raspare con le sue piccole unghie contro la porta del gabinetto svegliando l'intera cittadinanza che, scoperto l'indesiderato ospite, m'intimò senza appello di liberarmene al più presto sorda alle mie lacrimevoli suppliche.

Tenni duro per qualche giorno , l'accattivante animaletto, dopo il poco felice debutto, si guadagnò dapprima le simpatie  di mamma poi quelle di papà finendo per diventare il settimo  membro della famiglia, l'unico che continuava a rifuggirlo, il primogenito ,qualche mese dopo traslocò in via Sicilia lasciando una volta per tutte campo libero al nuovo arrivato.

L' amabile felino, ribattezzato da mia madre Cio', perdendo così per sempre il suo cliché rivoluzionar-proletario, ci tenne compagnia per oltre cinque  anni divenendo un tenero amico per tutti noi, la sera aspettava il nostro ritorno per giocare saltando agilmente contro le cornici delle porte pungolato dal movimento saettante delle nostre dita, la notte s'acciambellava in fondo al letto matrimoniale per dormire con i suoi genitori adottivi e negli interminabili e angosciosi giorni della malattia di Paolo rimase accanto al suo giaciglio come ne avvertisse la sofferenza restando accovacciato per ore ai suoi piedi.

Un giorno poi, durante il trasferimento estivo della famigliola dalla capitale alla consueta residenza estiva, nel corso della sconsiderata sosta  concessaci per mangiare un boccone, si fa per dire, in un casereccio ristorante di Tagliacozzo, sgusciò fuori dalla  gabbia e prese a gironzolare nel cortile interno dove era apparecchiato il nostro tavolo, qui purtroppo incontrò un poco raccomandabile  gattaccio selvatico e finì per innamorarsene perdutamente. Al termine del pranzo  quando tentammo di riprenderla ci si rivoltò contro ,arruffò il pelo e si rifiutò di tornare nella sua provvisoria prigione per continuare il viaggio, i ripetuti tentativi esercitati per convincerla a seguirci risultarono inutili, l'ingrata micia senza degnarci di uno straccio  di saluto se la svignò con il suo arrapatissimo nuovo compagno scomparendo in breve tra l'erba alta del giardino attiguo.

Nel frattempo era nata Valentina, Piero aveva sparso per primo il regal seme, togliendo la sicura alla sua  formidabile arma impropria,  patrimonio caratteristico dell'intera casata, e con l'aiuto di Giuliana aveva messo al mondo un  Tiddi di nuova generazione, il prototipo di una lunga serie di eredi  che avrebbe di lì a poco ripopolato i parchi e le scuole della capitale.

Il primo cucciolo della nuova generazione era sgusciato  fuori il 2 giugno 1978,  più o meno a cavallo tra il pareggio di Paolo Rossi e la rete della definitiva vittoria sui cugini segnata da Zaccarelli nell’esordio azzurro dei mondiali d’Argentina contro la Francia.

Anch'io d’altra parte stavo per deporre il pistolone nella fondina,  ma prima di sparare le ultime cartucce a salve c'era tempo per castigare ancora qualche colombella approfittando della fortunata circostanza che, come già ampiamente rivelato qualche chilometro d'inchiostro più indietro, le donne all'epoca dei fatti descritti mi trovavano francamente irresistibile.