CAPITOLO 6

 

 

Quartiere Africano

 

 

 

 

 

erto nella capitale le cose andavano in tutt’altra maniera. Che noia la vita di città in confronto a quella che conducevo in quello sperduto paesino d'Abruzzo! Di uscire ancora non se ne parlava, ma non mi perdevo d’animo, gli svaghi non mi mancavano.

Trascorrevo il mio tempo libero, che allora era parecchio, a giocare in casa con i soldatini o a leggere le emozionanti avventure del misterioso astronauta Luc Orient e del coraggioso pilota automobilistico Michel Valliant sul Corriere dei piccoli,  ma soprattutto adoravo progettare con le costruzioni della “Lego” ponti, case e accampamenti dove sistemare i miei minuscoli militari sempre pronti a menar le mani.

Proprio con quei  multiformi e colorati mattoncini realizzai Tiramolla , una lunghissima nave che dalla porta finestra della cameretta di Aurora raggiungeva, protendendosi lungo il parquet ,la porta d’ingresso della  stanza.  Innalzai l’albero maestro e ne sistemai altri due  all’estremità del vascello facendo scorrere da prua a poppa del filo da cucito lungo il quale appesi decine di bandierine colorate .

Per mesi non ebbi il coraggio di smontarla ma le continue lamentele di mamma che non riusciva a passare decentemente lo straccio  a causa del bastimento ancorato nella camera ma soprattutto la frenesia di costruire nuovi edifici e futuribili viadotti sospesi mi convinsero all’inevitabile demolizione di quel  colossale piroscafo.

Quando i combattenti, sfiancati da impegnative campagne militari  tornavano nelle loro scatole e i pezzi della  Lego riposavano  dentro il fustino del Dixan, non restava che accendere il televisore.

La Rai , che deteneva all’epoca l’assoluto  monopolio dell’etere,  non offriva certo la vastità e varietà di programmi degli attuali palinsesti, nelle prime ore del pomeriggio trasmetteva la Tivù dei Ragazzi, il compunto maestro Alberto Manzi apriva la programmazione con   Non è mai troppo tardi , seguiva un cartone animato del Braccobaldo Show e un breve telefilm della serie  Rin Tin Tin – a volte sostituito da un episodio di Zorro – e in chiusura andava in onda  Chissà chi lo sa? condotta da Febo Conti.  Poi per noi bambini se ne parlava dopo cena con il fuoco di fila delle  reclame di Carosello , ultima zattera di salvataggio prima di finire dritti a letto.

Allo scoccare della primavera  , quasi ce l’avesse prescritto il pediatra  , ci toccava sorbirci lo Zecchino d’oro , un melenso anestetico gradito molto più alle mamme – occhi umidi e lacrime in tasca - che ai loro annoiati piccini in cerca d’emozioni forti.

Il presentatore Ciro Tortorella nelle ridicole vesti del popolare Mago Zurlì , decisamente più simile ad un principe azzurro che ad un prestigiatore , ci tediava interi pomeriggi propinandoci una marmellata di canzoncine  grottesche interpretate con un’insopportabile vocina in falsetto da cantanti miniaturizzati  in calzoncini corti e vestitino buono. Le mie monumentali orecchie a sventola ne avrebbero fatto volentieri a meno,  ma a quei tempi pare che per crescere bravi e buoni fosse assolutamente necessario sottoporsi una volta l’anno a quello straziante tormento.

I cartoni quelli sì che li adoravo! “Tom & Jerry”, ”Gli antenati”,”I Pronipoti”, ” Gatto Silvestro”, “Vil Coyote”! Divertenti avventure  di favolosi personaggi , animati dalle matite di abili disegnatori e geniali sceneggiatori , che facevano divertire i bambini senza angosciarli con storie tristi e malinconiche come quelle in onda oggi,  che hanno per protagonisti improbabili supereroi con gli occhi a mandorla spesso violenti e sanguinari o ragazzini  sfigati, orfani e poverissimi, che , se hanno fortuna, trovano una madre adottiva cattivissima o quella naturale in prognosi riservata.

La sera dopo cena invece – sempre che mamma e papà fossero d’accordo - attendevo con impazienza l’inizio dei programmi di prima serata che proponevano i telefilm del perspicace Perry Mason , l’attore americano Raymond Burr , del Commissario Magret ,  il popolare personaggio creato dallo scrittore francese  Simenon  magistralmente interpretato dall’indimenticabile Gino Cervi affiancato  dall’amabile Andreina Pagnani nel ruolo della signora Maigret, ma soprattutto  del Tenente Sheridan .

Memorabile la serie trasmessa  all’interno di “Giallo Club” e “Ritorna il tenente Sheridan” , addirittura leggendaria la successiva serie andata in onda tra il 68 e il 72 con i titoli di  “La donna di fiori”, “la donna di quadri”, la donna di cuori” e “La donna di picche”  .

Il tenente Ezechiele Sheridan , infagottato nel suo inconfondibile trench bianco, lo vedevo spesso passeggiare sotto casa, chi lo impersonava  , l’attore Ubaldo Lay, era un nostro dirimpettaio, abitava infatti al civico 7 e non di rado lo si poteva incontrare al bancone del caffè Motta o sotto il fungo all’incrocio con piazza Gondar a conversare con i vigili urbani del quartiere.

Il mio eroe preferito era però fatto di carta, si chiamava e si chiama tuttora Tex Willer, l’ intrepido ranger senza macchia e senza paura di casa Bonelli , feci la sua conoscenza  un piovoso pomeriggio del 1965.

Ero sceso al piano di sotto da Paolo Sbrana detto il Gobbo , un amico di mio fratello Paolo , poco più grande di me,  che collezionava  gli entusiasmanti albi di Aquila della Notte, oggi il suo terzo figlio è compagno del mio nell’asilo nido di via Tripoli. Solitamente andavo da lui per giocare a pallone nel lungo corridoio di fronte  allo studio sotto gli occhi terrorizzati della madre, quel giorno però la presenza in casa del padre ci sconsigliò di scendere in campo.  Così , riposta la sfera di cuoio e alzato lo sguardo verso gli scaffali piena di libri, volumi e dizionari , vidi, ordinatamente disposti, i primi mitici  numeri di quegli albi giganti – riedizione dei primi leggendari albi a strisce del ’49 - ideati dalla geniale mente di  Gianluigi Bonelli e disegnati dall’abile mano di Aurelio Galeppini in arte Galep  . Chiesto e ottenuto il permesso di sfogliarne qualche pagina sprofondai sul divano e in poche ore divorai il primo fascicolo della serie : La mano rossa.

Nei giorni seguenti lessi con avidità le rimanenti avventure restandone affascinato e decisi di farne anch’io la collezione, oggi dopo oltre trentasette anni continuo a recarmi emozionato puntualmente dal giornalaio al 10 di ogni  mese per acquistare l’ultimo numero in edicola.

Quando non ne potevo più dei soliti giochi e avevo terminato di svolgere i compiti assegnati a scuola, in verità evitavo di approfondire gli argomenti e chiudevo i quaderni dopo pochi minuti , annoiato a morte mi sedevo in punta alla sedia di cucina con le braccia piegate sullo schienale e le gambe penzoloni e  fissavo la porta finestra , oltre la quale la pioggia insistente annunciava il cambio di stagione , chiedendo  a mamma cosa potessi fare.  L’abituale risposta ,”Batti la testa al muro”, non era delle più incoraggianti.

Non arrivai mai a tanto, ma , abituato durante il periodo estivo a vagabondare tutto il giorno per i vicoli del paese e i sentieri dei monti adiacenti, non era semplice tornare a rinchiudersi tra le quattro mura di Piazza Gondar. Scendevo allora con un balzo dalla sedia e, uscito sul terrazzino della cucina che affaccia sul cortile,  imbracciavo il battipanni appeso al ripiano  accanto a Geo e Gea e cominciavo a strimpellarlo come fosse una chitarra cantando a squarciagola La Fisarmonica del sempre verde  Gianni Morandi certo d'interpretare il mio pezzo forte. Un po’ meno convinti lo erano gli sfortunati condomini del palazzo che , lamentandosi con il portiere e mia madre, stroncarono sul nascere la mia ascesa nello scintillante firmamento delle star musicali.

Qualche volta mamma ci portava a trascorrere una mezzora dalla nonnina della porta di fronte e mentre le due vicine conversavano piacevolmente io e Aurora ci rimpinzavamo con le squisite  caramelle Rossana che la previdente vecchina , in occasione delle nostre frequenti visite, acquistava  apposta per noi insieme agli albi a fumetti di Pecos Bill, Topolino e il Cavaliere Mascherato .

Sullo stesso pianerottolo abitava anche la mia prima fiamma – roba da elementari - il suo nome era Valeria, e la duplice circostanza che abitasse alla porta accanto e avesse più o meno la mia età ne faceva la fidanzata ideale . Quando andavo  a casa sua però invece di farla giocare al dottore preferivo riempirle il diario di disegni romantici e dediche appassionate. In breve conobbe compagni di gioco più svegli di me e non la vidi più.

Di tanto in tanto  la mamma mi dava il permesso  di recarmi all’oratorio della parrocchia SS. Trinità, autorizzazione concessa in virtù della breve distanza che la separava da casa.

Il gruppo di sacerdoti inseriti in pianta stabile nell’organico  di quella chiesetta sistemata alla buona in un garage di viale Somalia era capeggiato dal panciuto parroco Don Angelo che in realtà appariva una sorta di gregario, l’eminenza grigia del gruppo era infatti Don Esterino, incallito fumatore e spietato fustigatore di costumi – terribili le penitenze inferte per un paio d’innocenti manovelle al giorno -   accanto a loro il mite Don Vittorino – ci occuperemo di lui tra qualche riga - e il manesco Don Nello i cui micidiali pizzichi erano diventati il terrore di tutti i ragazzini del quartiere in odore di peccato.

Non andavo troppo d’accordo con quei bacarozzi neri che ti consentivano di giocare a ping pong o a biliardino soltanto se la Domenica eri andato ad ascoltare la  Messa e avevi regolarmente seguito tutte le lezioni di catechismo della settimana, spesso preferivo perciò tornarmene a casa a far impazzire mamma.

Ricordo che toccavo tutto e ,quel che è peggio,tutto quel che toccavo rompevo.

La disperata procreatrice teneva particolarmente alle due miniature di porcellana collocate in cima al mobile bar del salone, e , conoscendo la mia abilità di arrampicatore ,ad evitare disastri, mi aveva fatto credere che quelle fragili statuine , raffiguranti due ballerine, pizzicassero. Impaurito rimanevo lunghi minuti a fissarle senza avere il coraggio di sfiorarle deriso da Aurora che sosteneva si trattasse soltanto di un ingegnoso stratagemma ordito da mamma per farmi tenere le mani in tasca. In verità la mia scaltra sorellina , per nulla convinta di quanto affermava,mi tentava per sapere se effettivamente le piccole sculture fossero in possesso di questo magico potere.

Quante me ne ha fatte quella peste!

Basta ricordare l’imbroglio alla  Totò con cui mi raggirò più di una volta.  Mi proponeva di barattare la sua  moneta da dieci lire con la mia da venti cercando di convincermi dell’indubbio beneficio che ne avrei tratto perché quella da dieci era più grande. Osservavo attentamente la circonferenza della monetina dorata da venti confrontandola con quella da dieci poi, persuaso ,accettavo lo scambio compiaciuto.

Un supplizio cui mi sottoponevano invece i miei sadici genitori era il frequente appuntamento con  le forbici del barbiere di viale Somalia.

Tonino, mi pare fosse questo il nome  del tagliatore di teste, mi faceva sedere su quel ridicolo seggiolone a forma di cavalluccio che, a suo dire, avrebbe dovuto tranquillizzarmi, poi cominciava a torturarmi con forbici e pettinino.  I capelli tagliati s’ infilavano sotto il colletto della camicetta e finivano lungo la schiena procurandomi un prurito insopportabile , dimenandomi come un invasato tentavo disperatamente di alleviare il fastidioso pizzicore grattandomi dappertutto sordo ai continui appelli del seviziatore a rimanere immobile.

Anche quell’irritante tormento aveva finalmente termine e con un taglio di capelli  simile a quello delle marionette del teatrino di Villa Borghese  - avete presente? Pennellata di vernice nera sulla testa, modello asfalto autostrada del sole   - me ne tornavo a casa rapato e incazzato .

La domenica ,in piedi di buon mattino, ci recavamo talvolta all’ippodromo delle Capannelle per  il picnic sull’erba a base di pasta al forno e polpette di carne con patate.

Mentre mamma tentava la fortuna puntando qualche lira sui cavalli e papà leggeva il giornale, io giocavo a pallone con i fratelli , spesso anche con i cugini unitisi alla compagnia, o tentavo inutilmente di far volare una specie di elicottero di plastica che lanciato da una sorta di fionda avrebbe dovuto volteggiare a lungo prima dell’inevitabile atterraggio ma in realtà non riusciva neppure ad alzarsi in volo.

Purtroppo però arrivava inesorabile la sera e al ritorno, imprigionati dalle lamiere dell’auto ,dovevamo sorbirci lunghe ore di fila per tornare a casa o per andare a mangiare una piazza da Amerigo magari in compagnia di Romolo e Rita.

Un altro luogo dove ci recavamo spesso era la villa di nonna Nannina di via Squarciarelli a Grottaferrata dove non mancava certo lo spazio per prendere a calci una palla,  giocare a nascondino o correre a perdifiato.

Parcheggiata l’auto lungo il viale che conduceva alla villa balzavamo giù ed andavamo a salutare nonna che ci offriva la solita orzata, poi, mentre mamma cominciava a chiacchierare amabilmente con nonna e papà si dileguava silenziosamente per passeggiare nei dintorni,noi sparivamo tutto il giorno seguendo i vialetti del giardino ricamati da  fiori profumati e siepi ben curate ,sostavamo qualche minuto accanto al roseto a goderci il fresco poi entravamo nel salone principale del fabbricato dove giaceva abbandonato un meraviglioso pianoforte a coda coperto di polvere e ragnatele.

Fu su quei tasti che iniziai a strimpellare le prime note e ad appassionarmi alla musica. Giorno dopo giorno scoprii il seducente mondo dell’armonia e precipitai nel pathos delle sue struggenti melodie fino a smarrirmi nel turbinoso fiume delle emozioni. Cominciai ad avvertire quegli intensi brividi che ti fanno venir la pelle d’oca e non potei più uscirne per lunghi anni diventando inesorabilmente musico-dipendente. Tratto dalla serie: “ Ritratto a tinte forti delle masturbazioni mentali di un giovane musicista in erba con preoccupante predisposizione all’L.S.D”.

Pochi anni  dopo acquistai il primo trentatre giri, Nursery Cryme dei favolosi Genesis, costo £.2.500,era il 1971,da allora il fatato universo del visionario gruppo inglese popolato di elfi , stregoni e paladini entrò a far parte della mia vita,  penetrò il mio animo inoculando turbamenti indicibili, guidato dall’emozionante musica di quei primi irripetibili brani mi addentrai nell’affascinante firmamento delle sette note .

Se non dovevo andare a scuola mamma mi portava con sé al mercato di via Fara Sabina, andavo pazzo per quel luogo così particolare , frastornato dai colori chiassosi e dagli odori intensi, ascoltavo rapito il ronzio delle massaie che tiravano sul prezzo coperto dalle grida dei commercianti e dei venditori ambulanti,ma soprattutto aspettavo con impazienza di raggiungere il luccicante banco dei giocattoli per farmi comprare la macchinetta a frizione o la scatola di soldatini.

Ogni tanto quando al mattino non ho voglia di lavorare -  a volte ho l'impressione non ne valga proprio la pena - ritorno volentieri ad   annusare quelle fragranze e ad ascoltare quelle voci. La bancarella è ancora lì, sepolta da variopinte scatole di macchinine, costruzioni e  orsacchiotti,gestito probabilmente dai figli del vecchio negoziante oggi in pensione o , peggio,  sottoterra.  Mi fermo ad acquistare un dono per il mio piccolo Gabriele e ,rientrato a casa,  fisso quel suo sguardo tenero che sprizza felicità e ritrovo  la gioia e l’intensità di quei momenti.

Sono tante le sensazioni,vorrei tirare il fiato ma incontenibili i ricordi zampillano a getto continuo dalla fontana della memoria e si mettono in lista,avrei voglia di riposare,preferirei assopirmi e tenerli nascosti nelle segrete dei miei convulsi pensieri. Ho raccontato tanti episodi della mia vita, innumerevoli altri brulicano nella mente, forse sarebbe opportuno lasciarli dove si trovano rassettando con calma la fucina dei ricordi.

Tanta confusione vero? Non può essere altrimenti!  Non è semplice  fermare sulla carta il disordinato, lento sbrogliarsi di tutta una vita.