Esempi Javascript: esempio pratico

CAPITOLO 1

 

 

Le origini

 

 

 

ue piccole comunità in regioni attigue appena abbozzate sulla cartina del centro Italia, Paliano accogliente cittadina in provincia di Frosinone e Pagliara dei Marsi frazione montana nei pressi de L’Aquila, da qui  comincia la mia storia.

A frugare più in là chissà quali ceppi e quante curiosità rintraccerei, preferisco però pensare che tutto sia nato lì.

Due famiglie del tutto estranee per mentalità e bagaglio culturale , ambedue comunque benestanti, l’una di estrazione contadina non priva comunque d’una modesta agiatezza , quella dei Bellizi, ebbe le sue origini in quel di Pagliara, l’altra, quella dei Tiddi, più colta e di probabile derivazione borghese , si stabilì a Paliano.

Tre dei miei nonni non li ho mai conosciuti, nonno Raffaele e nonna Aurora per parte di mamma, nonno Caio per quella di papà.

I primi due sono avvolti in un  alone di mistero e leggenda, morti giovanissimi sono sempre stati per me dei mitici ed eroici  avi, quasi dei penati di omerica memoria - non  penati  nel senso letterale del termine che indica una ragguardevole esuberanza sessuale, questo sarebbe accaduto  più tardi, alla mia nascita - è forse per questo che conservo , appesi alla parete dello studio,  i loro suggestivi ritratti riprodotti in caratteristiche foto d'epoca color seppia ormai consunte dal tempo.

Immagini dei primi del novecento, figure antiche dalle fattezze chiuse e assorte , increspate da un soffio di malinconia, che, nel magico colore   del bianco e nero di una volta, continuano ancor oggi ad esercitare   un fascino accattivante.

Ben poco si sa di loro.

Nonno Raffaele Bellizi , 23.5.1890 – 26.10.1918 , figlio di Pietrantonio   3.6.1863,  cocchiere di casa Torlonia  - fu Raffaele Bellizi e Filomena Rocchi - e Anna Teresa Di Marzio  20.8.1867, era nato a Pagliara dei Marsi , gemello di Filomena e secondo di ben dieci figli: Maria 26.6.1888, Filomena 23.5.1890, Emma 1.4.1894, Aristide 9.5.1895, Antonio Fernando 15.5.1900, Elvira 11.5.1902, Domenica 6.7.1904, Pasqualino 6.7.1904 e Umberto 17.4.1908.

Si tratterà senz’altro di suggestione ma il nonno doveva essere un tipaccio assai simile al sottoscritto, inquieto,  impulsivo e tutta grinta, forse persino un po’ ribelle, per quanto fosse concesso esserlo a quei tempi.

Piccolo di statura, baffi ben curati, sguardo profondo e carattere riottoso , spinto da un’indole avventurosa e pungolato dal mito americano partì giovanissimo per gli Stati uniti  come migliaia di altri giovani con il suo stesso retroterra ambientale e culturale .

Diede prova di fermezza e personalità quando, invaghitosi di Aurora Michetti 2.6.1890 - 10.3.1920 , sorella di Giulia e Cecilia e figlia di Pietro Michetti casato con Maria Antonia Lustri, figlia di Michele Lustri e Maria Bellizi ,a sua volta figlio di Francesco Michetti e Magrina D’andrea 20.6.1849  -   avete ripreso fiato? -  la sposò nel 1913 contro il volere dei suoi testardi genitori.

La giovane, nata - come già menzionato - il 2 giugno 1890, stesso giorno di mia nipote Valentina, proveniva da una famiglia di modeste condizioni economiche, a questo si aggiunga che, a parere di papà Pietrantonio , il figlio era troppo giovane per accasarsi .

Per certe idiozie , si sa , i tempi non cambiano mai .

A buon intenditor … con quel che segue.

Per farla breve quel capoccione di mio nonno, contro tutto e tutti,    impalmò la sua prescelta e s’incazzò come un toro contro chi aveva avuto l’ardire di tentare di fermarlo.

In fondo quel che accadde a lui allora capiterà   settant’anni  dopo  a qualcun altro, anch’egli “troppo giovane per sposarsi”. 

Caro nonno , tu lo  sai bene,  chi non risica non rosica, noi abruzzesi  abbiamo la testa dura come quella  dei muli che faticano su per Pianezze.

Di certo i due novelli sposi non ebbero troppo tempo per conoscersi ed amarsi, prima l’America poi la Grande Guerra li tennero inesorabilmente lontani.

Già, Raffaele, che aveva già combattuto,  poco più che  ventenne , in Libia con il grado di caporal maggione nelle trincee di Homs durante  la guerra italo turca del 1911 - come ci racconta il suo maestro elementare, il Prof. Francesco Di Marzio,  nell’ operetta di rime dedicata a quel conflitto dell’agosto 1912 -  fu uno dei   numerosissimi fanti contadini che, partito per il fronte all’inizio delle ostilità, affrontò quella calamità come fosse la grandine che spazzava via i raccolti. Una delle tante vite perdute in quell’orribile carneficina.

Non credo sapesse perché combatté nei terrapieni scavati tra le pietraie  del Carso fino a trovarvi la morte. Tornato in Italia dalla   Pensylvania, dove era andato a cercar fortuna con il fratello Aristide, si arruolò solo perché avevano minacciato di confiscargli le terre qualora non avesse risposto alla chiamata alle armi . Fu uno dei pochi, la maggior parte dei suoi conterranei se ne infischiò restandosene al sicuro al di là dell’oceano per poi tornare a guerra finita.

Forse se non fosse tornato al paese natale per riabbracciare la sua Aurora lo avrei conosciuto e chissà quante e quali fantastiche storie avrebbe potuto raccontarmi . E’ altrettanto vero d’altra parte  che se fosse rimasto là  non avrebbe potuto concepire mia madre con la spiacevole conseguenza che io non sarei mai nato, e questo, ho idea, m’avrebbe indispettito parecchio.

Mi piace pensare al tipico addio dei romanzi d’appendice, una coppia splendida e innamorata inesorabilmente divisa all’improvvisa  deflagrazione del terribile conflitto. Sigh! 

Il mio valoroso progenitore doveva essere in possesso anche di una certa, sia pur rudimentale,  istruzione, trasferitosi infatti con alcuni compaesani in zona di combattimento venne ben presto nominato   sergente maggiore del regio esercito.

Allo scoppio delle ostilità aveva fatto quasi certamente parte dell’armata  che aveva sferrato l’attacco sul Carso contro il Monte San Michele , cardine della difesa austriaca in quel settore e l’anno seguente partecipato con il suo battaglione alla liberazione di Gorizia del 9 agosto 1916 .

Nel giugno del 1917 aveva preso parte con ogni probabilità –  si tratta di semplici congetture basate sul fatto che il suo reggimento era  schierato sul fronte isontino – prima allo sfortunato tentativo di far cadere l’Hermada , poi all’offensiva della III armata sul Carso che avrebbe portato la nostra fanteria  ad espugnare importanti posizioni come il monte Santo senza tuttavia riuscire a sfondare lo schieramento avversario , la controffensiva degli imperi centrali avrebbe portato poco dopo  alla disfatta di Caporetto.

Perse la vita nell’ultimo anno di guerra, otto giorni prima della firma dell’armistizio di Villa Giusti, nel crollo di una galleria dove si era rifugiato con il suo reparto per sfuggire al fuoco nemico.

Mi sembra di vederlo poco prima dell’olocausto  , barba lunga, espressione  seria  , uniforme sporca e lacera dopo la lunga permanenza in trincea, passare in rassegna la sua breve vita come lo sfondo di un film.

Una vera sfiga, ferito già due volte  - con ogni probabilità in occasione delle ripetute battaglie dell’Isonzo - si era  ripreso  miracolosamente e non aveva esitato a tornare in trincea con i suoi commilitoni per compiere per intero il suo dovere .

Le ostilità erano già praticamente cessate , il giorno dopo un ufficiale austriaco si sarebbe presentato ad un nostro comando avanzato per annunciare l’arrivo di un plenipotenziario con la richiesta d’armistizio , quando il 28 ottobre 1918 perì con il suo plotone nella caverna centrata dalle artiglierie austriache , quello stesso giorno  le truppe del XVIII°  Corpo d’armata risalivano la sinistra del Piave e all’alba del 29 potevano agganciare il nemico , batterlo ed inseguirlo fino a Vittorio Veneto.

Il 14 maggio 1923 gli sarà concessa la croce al merito di Guerra, questo il testo dell’attestato  consegnato alla famiglia :

 

Regio Esercito Italiano

Il ministro della Guerra

Visto il R. Decreto 19 Gennaio 1918 n.205

Determina:

è concessa alla memoria del Sergente maggiore nel 39° fanteria

Bellizi Raffaele di Pietrantonio

La Croce al Merito di Guerra

Roma, addì 14. 5. 1923

Il Ministro

A.    Diaz

B.    

Fu probabilmente durante una breve licenza che concepì mia madre, non poté mai vederla, non tornò più per stringerla nelle sue forti braccia.

Che antologia di luoghi comuni è?

 

In quanto a nonna Aurora, donna di alta statura , dotata di una particolare bellezza e del tipico buonsenso contadino cucinato all’abruzzese , la immagino , completamente votata al marito e al focolare domestico, occupata a prendersi cura di Maria Antonia 22.8.1914 - 22.8.1996 la primogenita, e della piccola Fernanda.  La dura vita di quelle donne d’altronde non lasciava certo spazio agli aneliti di rivolta che avrebbero caratterizzato qualche anno più tardi l’universo femminile.

Si narra che si sia lasciata morire dopo l’eroica morte del suo coraggioso sposo e probabilmente fu proprio così che andò, colta ,a dire di mia madre, dalla polmonite che spesso all’epoca non lasciava scampo -  ma più probabilmente dalla terribile epidemia Spagnola che nel biennio 1918-1919 provocò la morte di oltre 21 milioni di persone in tutto il mondo  -  gli sopravvisse solo pochi mesi.

L’unica sbiadita traccia del loro rapido e tragico passaggio su questa terra, oltre a un paio di vecchie foto consunte dal tempo , il toccante epitaffio  composto da mio padre e inciso su un’antica lapide scolorita , velata dall’erba alta, fissata al muro perimetrale del vecchio cimitero del paese :

 

Per te mamma che orfane ci lasciasti ancora indifese resti questo segno col tuo di sposa fedele. Richiami ai teneri virgulti della tua pianta anche il ricordo di papà, umile eroe del Carso petroso, sempre vivi nel loro ricordo”.

Per Raffaele Bellizi caduto il 26.10.1918 ed Aurora Michetti che desolata lo seguì il 20.3.1920 le figlie posero.”

 

Il nonno era sergente del 13° Fanteria, 6a Compagnia,11° squadrone nella batteria della 14a Divisione dei reparti speciali in zona di guerra, come si legge in un’antica  e sbiadita cartolina postale da lui inviata al prete del paese  Don Urbano Urbani.

Di seguito tenterò di tradurre la missiva ,  la carta malconcia non aiuta a leggere correttamente e la particolare calligrafia del tempo è spesso illeggibile per chi come me è abituato ai caratteri freddi e inespressivi di computer e macchine da scrivere, la vista da talpa di chi legge  e l’ortografia non proprio corretta - per usare un eufemismo - di chi scrive, completano il quadro di una difficile interpretazione del testo.

 3/6/1916

“Zi prete carissimo,

Sono ricevuto la tua cartolina e ti risposi presto .L’ai richiesta? credo di si. Io sino adesso mi trovo bene, come spero di te.

Zi prete sai che quel povero Virgilio è stato ferito leggermente, si diceva che la cavalleria non combatteva e invece qui le anno tutti le batostole(?).

Speriamo che le preghiere che tu fai per noi combattenti saranno esaudite ma saprò bene ricompensarti.

Salutami e baciami il caro Italino e un bacetto a Elenina(?)

Così ti bacio di vero cuore ti chiedo la tua benedizione e con rispetto mi firmo tuo devotissimo Raffaele. Ti salutano i miei commilitoni”

Mia madre non conobbe il padre e ricorda poco o niente della mamma persa in tenera età, fu cresciuta da alcune zie e dai nonni, Teresina e Pietrantonio - cocchiere di casa Torlonia -  genitori di Raffaele.

Lo stesso destino di Aurora che rimase orfana della madre, Maria Antonia, il giorno in cui venne alla luce, il parto fu infatti fatale, come spesso accadeva all’epoca, sia alla madre che alla sorella gemella Angelina.

La casa paterna di mio nonno era situata nella piazza centrale di Pagliara accanto al Palazzo di Bellizi Domenico, edificio storico del paese demolito negli anni cinquanta in quanto ormai pericolante.

Era una ricca famiglia di commercianti quella dei Bellizi che effettuava i suoi commerci tra l’Abruzzo il Lazio e la Campania e proprio in quest’ultima regione ebbe origine l’altro ramo della mia stirpe quello dei Tiddi.

Per l’intrigante labirinto di emozioni e lo sconclusionato pasticcio on the road  dalla quale eruppe gagliarda la genesi dei miei antichi progenitori,  non avendo altre fonti  , non mi resta che affidarmi alla solennità e alla sobria eleganza  del Pentateuco :

 

“ In principio era il Tiddo e il suo alito pesante aleggiava sulla terra.

Tiddo disse : “Sia fatta la luce.” E la luce fu.

Tiddo vide che la luce era sì cosa buona,  ma pure fioca e disse:  Dateme ‘m par d’occhiali che c’allusco poco”.

E fu sera e fu mattina.

Tiddo disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque e le acque stiano sotto e il firmamento resti sopra , il sole di giorno, la luna di notte, la Roma in serie A, la Lazio In serie B e, se piove e tira vento, chi è che bussa a ‘sto convento?”

E così fu e il Tiddo vide che era cosa buona, poi,  con la testa che gli girava e una smorfia da ebete stampata sulla faccia,   sputacchiando sminuzzi d’erba aggiunse : “Me sa che la devo pianta’ de famme tutte ‘ste canne!.  

E fu sera e fu mattina.

Tiddo vide il mare, provò ad immergere il posteriore a bagnomaria e mancò poco che annegasse : pare avesse la faccia come il culo.  Tiddo vide che era cosa buona ma piuttosto pericolosa, così , inzuppato e intirizzito , tirando fuori l’acqua dalle orecchie e soffiandosi il naso disse:

“Sia fatta la polizza contro lo spargimento d’acqua e i rigurgiti di fogna. Poi aggiunse: E non voglio sentir parlare di franchigie!”

E fu sera e fu mattina.

Scoprì il fuoco , vide che era cosa buona ma scottava alquanto e allora imprecando come Paolo – ci occuperemo  di lui più avanti - quando salta il collegamento Stream  , disse: “Sia fatta la polizza incendio.”

E fu sera e fu mattina.

Poi inventò la ruota, vide che girava e che era cosa buona, ma perdeva aderenza in curva e sul bagnato, allora  disse: “Sia fatta la polizza RCAuto.”

E fu sera e fu mattina.

Infine incontrò la donna , vide che era molto bona ma pure stronza, allora disse : “ Ce’ vorrebbe ‘na polizza cauzione .”

Resosi tuttavia conto che il costo di un simile prodotto  sarebbe stato proibitivo  continuò : “ Che ve devo di’?  Quasi quasi ‘na botta tra capo e collo io je la dò lo stesso !”

E fu notte per sempre.

Fu così che i miei dissoluti antenati cominciarono a moltiplicarsi sulla terra, …i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. – Bibbia, Genesi versetto 6.”

Sul piano concreto non posso realisticamente credere che quanto appena trascritto - riportato parola per parola dalle sacre scritture - sia tutto vero, ma la minuziosa descrizione dell’avvento del Tiddo sulla terra e della successiva realizzazione della vita su di essa, avvenuta per opera del nostro in remote epoche che si perdono nella notte dei tempi, lascia pensare che tale racconto, seppur sfumato nei suoi connotati più fantasiosi, contenga molte verità.

Il nostro leggendario progenitore, depositario di immortali principi e perle di saggezza, ne avrebbe fatta di strada.

Vediamo quanta.

Sfogliando le pagine di un libro commissionato da mio padre all’ufficio ricerche storiche araldiche , scartata la cervellotica e azzardata ipotesi di un’ origine etimologica del cognome dall’antico eroe greco Tideo , padre appunto del Tidide Diomede – Omero  - ho potuto apprendere  che  la casata ebbe il proprio capostipite nella nota e potente famiglia dei Malatesta di Rimini.

Da quanto si legge nello “Sreti - Enciclopedia Storico nobiliare Italiana”, vol. VI. Pag. 603, si crede che la casata si chiamò variabilmente , nel fluire dei secoli Tiddi, Tidi o Titi, questi ultimi così originariamente chiamati  sembra discendano appunto da Tito dei Malatesta, tesi avvalorata nel 1685 in una pubblica attestazione della Magistratura civica di San Sepolcro.

Comunque andò è però certo che dal ceppo due rami si dipartirono  intorno alla fine del 600, uno si stabilì in Toscana presso Firenze,  l’altro, quello che ci riguarda più da vicino, agli albori del cinquecento in Campania e precisamente nella città di  Napoli.

Alfonso fu una sorta di sindacalista ante litteram in quanto fece parte del 1532 di una commissione inviata alla Regia Corte per protestare  contro l’aggravio dei fuochi e ottenere privilegi a favore dei mercanti.

Nel 1533 un Antonio fece parte del Consiglio della Vicaria carica.

E’ il periodo del ritorno dei francesi di Luigi XII che ritentano l’avventura italiana ed oltre al regno di Napoli rivendicano anche il ducato di Milano , del sacco di Roma, dell’assedio di Firenze, di Cosimo dei Medici e delle continue congiure ed insurrezioni che scoppiano puntualmente nell’Italia dei ducati .

Come per tante altre anche le fortune della nostra casata saranno alterne, comunque i membri della progenie resteranno sempre elementi di primo piano dell’aristocrazia dell’epoca.

Più tardi, verso la fine del ‘600 , la famiglia si trasferì in zone più prossime al Lazio, presumibilmente in Paliano, dove ebbero stanza i diretti progenitori dell’attuale ramo vivente in Roma.

Nicolò nell’armata Cristiana, al comando di Don Giovanni d’Austria, partecipò alla memorabile battaglia di Lepanto contro i Turchi, correva l’anno 1571.

Giovanni 1580, fu Castellano delle fortezze di Capua e provveditore a guerra di quei soldati nel secolo XVI°.

Mariano , con Sovrana Risoluzione del 5 agosto 1591,  esecutoriata – fate poco gli stronzi non vedo perché dovete sollevare  le sopracciglia e serrare le labbra ,   il vocabolo esiste eccome , vuol dire attuata , sarà pure un termine desueto ma capita proprio a ciccio  - il 15 novembre dello stesso anno , fu investito del titolo baronale sul tenimento feudale di Torrearsa.

Questo possedimento , con annesso titolo, passò poi per ragioni di dote in casa Carafa.

Ancora un Mariano luogotenente di Don Andrea Caracciolo gran giustiziere del regno - praticamente un boia - perì in una rivolta popolare contro la gabella del 1587.

Ludovico   esercitò il notariato in Napoli intorno alla metà del 500, da lui furono rogate le nozze e gli atti più importanti della migliore nobiltà del tempo.

Pier Camillo ,uomo dotto e prelato – ho detto prelato! Non pelato! - fu Canonico maggiore in Santa Maria del Suffragio in Capua e Vicario di quel vescovo nell’anno 1636.

Della famiglia non si ebbero più notizie per un centinaio d’anni , quasi un buco nero avesse ingoiato i miei antichi congiunti , poi sul finire del 1700 tornò a farsi vivo un certo Benedetto, possidente – cosa possedeva? E che cazzo ne so! -  che sposò  Maria Teresa Ruzzetti, donna di casa – evidentemente esistevano pure quelle tenute fuori casa , probabilmente a catena come i cani  -  dal loro matrimonio nacquero Vittoria – 1808 /2-10-1887 – sposata con Andrea Pantellini e Pietro – 11-9-1813/15-6-1839.

Tuonavano i cannoni sabaudi e sventolavano le bandiere del Risorgimento e ,mentre l’astuto conte di Cavour tesseva la sua trama tricolore e l’eroe dei due mondi faceva l’Italia sul serio,  i miei illustri e licenziosi progenitori pensavano a fare la loro parte di italiani :  la migliore.

Pietro impalmò Maria Rossi e dall’unione vennero al mondo i fratelli Arcangelo –19-7-1837 e Carmine –1839-

Quest’ultimo, possidente, sposato in prime nozze con Natalina Scacciotti, nata nel 1836, donna di casa e figlia di Sisto Scacciotti e Maria Bizzarri, prese in moglie in seconde nozze il 3-2-1874 Caterina Favoriti.

L’Italia era ormai fatta , ora occorreva  popolarla.

I miei solerti antenati non si tirarono indietro e sfoderato il loro leggendario martello pneumatico si misero alacremente al lavoro.

Dal matrimonio di Carmine con la  seconda moglie nascono :

Natale morto all’età di tre mesi nel 1875, Marcello nato il 18-1-1877 e scomparso il 21-1-1877, Francesco morto all’età di cinque anni nel 1883, Ernesta Maria morta a quattro giorni nel 1880 e Pio di cui non abbiamo alcuna notizia.

Una vera carneficina. Che sfiga!

Dalle prime nozze di Carmine con Natalizia Scacciotti nascono Assunta Maria , morta a sette giorni di età nel 1873 -  la madre morì di parto dandola alla luce -  e Pietro 1859/1921.

Pietro impalmò Adele Spera e con lei procreò Natalizia, Gerardo, Tiberio, Giulia, Virginia Maria – nata a Paliano il 3.1.1900 morta a Genova il 9.11.1950 – Felicia, Tito  e

Caio -  mio nonno -  nato a Paliano il 6 gennaio 1893 morto a Roma il 7/6/1955 che, unitosi in matrimonio con Anna Maria Lucchini 18.3.1896 – 8.3.1974 figlia di Umberto – fu Giovanni – e Romanini Ricci e sorella di Raffaele, generò ben otto figli.

 

 1)   Piero, Napoli 10.2.1922-9.1.1941.

Rievocheremo le sue eroiche gesta e torneremo a tracciarne il profilo al momento opportuno.

 

 2)  William Benevento 16.12.1922-Roma 21.9.1989.

Instancabile stacanovista e figura storica del servizio Totocalcio del C.O.N.I. , il “Rag.” - come veniva affettuosamente chiamato dal gemello burlone - si intestardì nel prolungato tentativo di concepire la sospirata femmina con il prevedibile risultato di sfiancare il suo randellone e procreare, assistito dalla moglie Fernanda Tisci, una numerosa e chiassosa prole, inflessibilmente contraddistinta dalla lettera “F” nell’iniziale del nome di battesimo:

Furio 17.7.1950 primogenito della coppia, sposa Valeria Corrado 4.5.1951 che dà alla luce Daniele 14.1.1983, Ilaria 19.3.1988 e Willy 2.11.1988;

Flavio 27.3.1952 prende in moglie Gioia Papini 6.8.,1951 e mette al mondo  Francesca Romana 6.3.1982;

Fabio 12.11.1953 si unisce in matrimonio con Irene Skossa 1.6.1947 e genera Barbara 9.1.1979 e Riccardo 27.9.1982;

Fabrizio 1.2.1957 s’ammoglia con Carla D’aria 30.8.1958 che partorisce Andrea 11.1.987 e Chiara 16.12.1988;

Fiorella 30.6.1960, ultima scheggia della prolifica covata, castigata  dal voluttuoso Mario Zonfrilli 30.8.1958 – verrà anche il suo turno –che   concepisce Fabiola 20.5.1991 e Valeria 13.6.1996 .

 

3)            Maria Romana 8.12.1923 che morirà l’ 11 novembre 1980   per

le  gravissime lesioni riportate in seguito ad un tragico incidente stradale,  va in moglie a Enrico Morini 12.2.1922 – 10.2.2001,  dal loro matrimonio nascono Giovanni 10.1.1951, Marinella 31/1/1950  e Giuliana 31.12.1958 . 

Giovanni , per tutti Gianni, sposa in prime nozze Mirella dalla quale ha due figli, Francesca ed Enrico, poi si unisce a Paola con la quale genera Maria Romana .

Marinella  , Marina all’anagrafe , si unisce in matrimonio con Paolo 29/6/1951, dall’unione nascono Luca e Chiara.

Giuliana sposa Olimpio Pigliucci 17.8.1955, e gli da  Virgilio, 21.2.81, Saverio,13.2.83 e Tiziano 29.11.87.

 

 4) Adriana si spense a pochi mesi.

 

 5) Sergio venne trovato privo di vita nella sua culla tre giorni dopo la nascita in uno dei numerosi episodi di morte bianca piuttosto  frequenti all’epoca.

 

6) Adriana 3.9.1929 sposò Vincenzo De Martino e non generò  figli.

 

 7) Maria Rosaria 21.2.1939 , l’ultima nata , maritata con Giuseppe De Rubeis 16.11.1932 – 21.3.1998  dalla cui unione nascono Cristina 26.9.1967 , sposata con Marco detto Lupo  - il vero cognome mi è ignoto - con il quale concepisce Francesco e Federico, e Gerardo 18.1.1969 unico rappresentante della penultima generazione ancora astutamente e pervicacemente scapolo.

 

  8) Walter -  mio padre - fratello gemello di William, nato a Benevento il 16 dicembre 1922 e scomparso a Roma il 30.9.1991, sposò il 22 aprile del 1948 mia madre Fernanda Bellizi  nata a Pagliara dei Marsi il 13.6.1917 fu Raffaele da cui :

Piero , nato a Milano il 25.1.1949 che impalma il 20.9.1975 Giuliana Liotta 6.6.1949 e con il suo aiuto mette al mondo Valentina 2.6.1978 e Corinna 3.5.1982 ;

Paolo , nato a Roma l’ 11.5.1953 che sposa il 6.9.1980  Cinzia Giampaolo 23.3.1954, dal loro matrimonio nascono Federica 12.11.1983 e Valerio 25.9.1987 ;

Maria Aurora 5.4.1957 ,accasatasi in un torrido pomeriggio estivo - 11 luglio 1981 per l’esattezza - con Marco Simoncini 3.7.1954, da questa lasciva unione vengono al mondo Benedetta 22.10.1988 e Andrea 28.11.1991;

Marco, genio del lignaggio e autore dell’opera che state leggendo  , uomo di bell’aspetto e multiforme ingegno, nato a Roma il 5/4/1957,   che il 24 aprile 1982 prende in moglie Letizia Maria Liotta 7.1.1962  - ultima erede di Antonino Liotta 7.10.1915 –23.6.1989 e  Livia Carconi 8.7.1919 e sorella minore di Rosario 19.1.1947 e Marilena 20.8.1950 – la quale, debitamente imbertucciata da quel sommo amatore – secondo quanto affermano i soliti laudatores servili che non mancano mai alla corte delle grandi personalità -  partorisce felicemente Alessandro 15.5.1983, Roberto 30.3.1987 e Gabriele 20.7.2000.

 

Mal di testa?  Qui si corre troppo ! Dietrofront  e torniamo al 1893.

Nonno Caio nacque , come già ricordato, il giorno della Befana di quell’anno da Pietro Tiddi e Adele Spera nella cittadina del Frusinate dove si era trasferita la famiglia d’origine dopo aver soggiornato a Napoli.  Sempre nella stessa cittadina della Ciociaria incastonata tra i Monti Prenestini e quelli Etnici vennero al mondo gli altri due fratelli, Felicia e Tito.

Il padre Pietro sembra esercitasse la professione di esattore comunale.

Caio studiò presso un istituto tecnico di Roma dove ottenne in data 3 luglio 1916 il diploma di perito commerciale e ragioniere.

L’Italia del giovane Caio è quella del Giolitti, della guerra di Libia, delle manifestazioni interventiste del 1915 e della definitiva decisione , dopo aver scelto con chi schierarsi, di partecipare al primo conflitto mondiale, è l’Italia di Caporetto prima di Vittorio Veneto poi, delle lacerazioni interne dopo la vittoria ,degli scontri di piazza e della marcia su Roma.

Negli anni venti dopo aver sposato Anna Maria Lucchini si trasferì in Benevento dove , nel 1923 , divenne direttore del Credito Popolare Meridionale e venne iscritto su proposta del Ministro per l’industria e per il commercio, nel ruolo dei Cavalieri Nazionali.

Appassionato di lettura prediligeva i racconti di cappa e spada e papà lo descriveva come   un  brav’uomo  dedito alla famiglia che provava per mia madre un grande affetto considerandola  la migliore delle nuore. Fernanda ricambiò il suo affetto con rispetto e riconoscenza, fu proprio lei infatti a rimanergli accanto insieme a Felicetta – la tata di famiglia - e a chiudergli gli occhi quando il 7 giugno del 1955, colpito da trombosi,  spirò nell'elegante appartamento di via Pompeo Magno.

Significative le parole di affetto e stima  che in occasione della  scomparsa di mio nonno i colleghi di lavoro dedicarono alla sua memoria  - anche se chi le scrisse aveva qualche seria difficoltà nell’applicazione  delle regole d’interpunzione - un toccante epitaffio che fu probabilmente recitato in chiesa durante la funzione religiosa dell’estremo commiato.  Eccolo riportato, parola per parola, punto per punto, virgola per virgola , così come trascritto su due ingialliti fogli di carta velina  giunti, chissà come, fino a noi.

 

Animo nobile, formidabile tempra di lavoratore, organizzatore impareggiabile in campo finanziario- assicurativo. Queste le spiccate qualità del rag. Caio Tiddi improvvisamente scomparso . a seguito di un collasso cardiaco e circolatorio che la sua fibra non ha potuto superare. Padre di famiglia esemplare lascia nel dolore più inconsolabile la Vedova e i figli da lui tanto amati, Lo ricambiamo di pari amore.

Dirigente apprezzato, pronto d’ingegno e di azione, era una delle figure di primo piano dei quadri direttivi del C.O.N.I. , ove , fino a qualche mese prima della Sua morte, aveva ricoperto la carica di Capo dei Servizi Amministrativi. Qui , la sua opera attiva e fattiva non conobbe le glorie della cronaca, perché svolta nel campo arido delle cifre e dei numeri, ma fu essenziale per la vitalità nel nostro massimo Ente Sportivo Nazionale. Ciò , in qualsiasi momento: quando il C.O.N.I. dovette subire le misure resrittive del passato regime: quando dovette superare la stasi imposta in ogni campo dell’attività sportiva a causa dei dolorosi eventi bellici della seconda guerra mondiale ; quando infine , riprese la sua ascesa , dovuta anche all’opera tenace e d intelligente del Rag. Caio Tiddi, che contribuì sensibilmente alla ricostruzione del patrimonio finanziario dell’Ente. Specie del 1947/48 , quando con acume di studioso e prontezza di dirigente ,volle sostenne ed ottenne che il Totocalcio passasse dalla gestione provvisoria della S.I.S.A.L., alle dirette dipendenze del C.O.N.I., come Servizio dello stesso Ente. Ed Egli ebbe una parte preponderante , in quella che fu la colossale organizzazione del Servizio Totocalcio, su tutto il territorio Nazionale.

Il successo di tale iniziativa, sul piano finanziario dello Sport Italiano , non ha precedenti, sia materialmente e più ancora moralmente: il recentissimo riconoscimento all’Italia con l’assegnazione delle Olimpiadi del 196, torna ad onore anche di Caio Tiddi, che affiancò l’opera più grande e vistosa dei massimi Dirigenti dello Sport d’Italia, con la più umile ma quanto mai preziosa fatica.

L’opera più vasta – e più cara al cuore del Rag. Caio Tiddi fu però , quella svolta in seno alla Cassa di Previdenza del C.O.N.I. – l’attuale SPORTASS – modello di organismo assicurativo per gli Sportivi, Ente da lui diretto dalla fondazione (1935) e fino al giorno della Sia morte.

Per dedicarsi completamente a questa opera altamente umanitaria verso tutti gli atleti, volta appunto a sollevarli ed aiutarli negli immancabili rischi, in cui incorre sempre l’amante appassionato di qualsiasi Sport, Egli lasciò l’alto incarico che ricopriva nell’amministrazione del C.O.N.I.

E qui continuò a profondere i tesori della  Sua esperienza, della Sua competenza , della Sua passione al lavoro. Egli tornava appunto , a casa dopo una delle sue tante giornate di lavoro, e fu colpito in modo inesorabile dal male che da tempo affliggeva il Suo forte organismo.

Chi lo conobbe non lo dimenticherà! In quest’ora di dolre che ci attanaglia l’anima per la Sua irreparabile perdita, chiniamo la fronte davanti alla Sua salma, e a chi sarà chiamato a continuarne l’opera auguriamo sinceramente , di fare per lo Sport il bene che Egli fece.

Addio Caio Tiddi! Il tuo ricordo non ci lascerà: è il ricordo dell’Uomo retto e giusto che per tanti anni lavorò nello Sport, per lo Sport!

  

Mia nonna paterna  - l’unica che ho avuto la fortuna , si fa per dire,  di conoscere  - veniva chiamata da tutti noi Nannina, in realtà il suo vero nome , come attesta un certificato di battesimo riesumato qualche anno fa tra le  antiche carte raccolte in un fascicolo nello studio di papà, era Anna,Ursula, Gabriella,Roberta.

Nata il 18 marzo 1896 da Umberto Lucchini e Romanina Ricci ebbe certamente un’agiata fanciullezza insieme al fratello Raffaele cui era molto legata e che sposò Maria, sorella di mio nonno.

Anche se piuttosto ardua da digerire non posso risparmiarvi la lettura del manoscritto di Raffaele trovato anch’esso tra le vestigia di famiglia  che rievoca l’agonia  del padre  Umberto  , mio bisnonno per parte di nonna materna.

         Si tratta di una tormentata lettera indirizzata proprio alla sorella, sul              frontespizio in alto a sinistra il luogo e la data -  Genova  22 ottobre 1914 -  al centro ,evidenziato a caratteri più marcati, il poco invitante  titolo, “Tristi Ricordi” ,in fondo  sulla destra il nome dell’autore:

 

“A te dolce sorella che col tuo amore mi hai sorretto nei più tristi momenti questo piccolo omaggio offro.

 Accettalo e custodiscilo come pegno dell’affetto immenso che per te ha il tuo fratello.”

In cima all’epigrafe, incollate con lo scotch , due piccole foto, a sinistra quella sbiadita del padre, dalla   parte opposta la propria in alta uniforme, in basso ancora una volta luogo, giorno, mese ed anno.

“ Ogni volta che rimiro la cara fotografia sono dolorosi ricordi che mi salgono dal cuore, ricordi che vengono a ripresentarmi come in uno specchio la vita di colui che fu per me il buono e affettuoso dei padri.

Appena entro nella mia stanzetta il mio sguardo è là: sulla fronte alta e spaziosa cade una piccola punta di capelli ,gli occhi sono neri, fieri, scintillanti, si che in egli traspare l’uomo schiavo e ligio al lavoro e al dovere, l’acutezza d’ingegno, la volontà indomita di persona di carattere; dalle labbra ornate d’un bel paio di baffi neri traspare un sorriso calmo quasi mesto che rende più cara e più bella la fisionomia dell’uomo che non è più.

Persa la mamma ,rapita anzitempo al nostro affetto, il non aver avuto la  consolazione di conoscere colei che ci diede la vita, chiamarla col dolce nome di madre, doveva già essere un dolore tanto grande per tener lungi da noi questa nuova grande sciagura. Ma no! Per noi era già riservato un calice dal quale avremmo dovuto bere fino all’ultima goccia il fiele amaro; capì che la morte della mamma segnò il principio di quella sequela di disgrazie che dovevansi  abbattere sul nostro capo.

 Ma dunque, babbo, eri già stanco della vita? Non volevi più bene ai tuoi figli, non li amavi più? O infame se osassi proferire tali ingiurie.

L’amore che aveva per i suoi figli, il desiderio immenso di vederli felici fu quello che lo spinse fino al colmo dell’eroismo al quale possa giungere un padre; al sacrifizio della sua santa e nobile vita volle affidare la felicità dei suoi figli.

Quel sacrificio fu grande, immenso: la salute malferma, il lavoro assiduo, opprimente, le veglie notturne, lo sforzo di quella volontà tenace, ferma, salda, temprata alle aspre e forti battaglie della vita, colla quale abbiamo difficoltà insormontabili; tutto s’infrange contro il male che doveva condurlo anzitempo alla tomba.

Quale il tarlo roditore che lento rode e buca il legno fin che questo non marcisce ed invecchia anzitempo, tal fu l’opera del male nefasto, che fin  della sua giovinezza ne minava l’esistenza lentamente, segretamente, quasi pauroso di palesarsi, finché stanco di lavorare all’incognito, diede il tracollo e segnò egli il principio di un’era di nuovi dolori e di nuovi affanni.

Pure qualche cosa me lo diceva, uno strano sentimento mi presagiva che una disgrazia doveva accadere: vedere il babbo cadere di tanto in tanto ammalato, l’accusare di sentirsi poco bene; il vedere quegli occhi dai quali traspariva tutta la sua volontà, tutta la sua energia, che quando ci fissavano ora per rimproverarci, ci facevan tremare, ammutolire; ora invece per darci una lode ,un consiglio ci si poteva leggere quanto ci amasse, il vederli erranti per l’aria languidi, fissi verso l’infinito, e il vedere qualche lacrima furtiva scendere sulla scarna guancia erano cose che mi straziavano l’anima e piangevo.

Si piangevo e il pianto era un pianto amaro….amaro.

La crisi tremenda che avrebbe dovuto portarlo anzitempo alla tomba gli prolungò invece i suoi dolori, aggiungendo a quelli materiali quelli morali.

Il giorno del fatale distacco venne, i medici dicevano che era necessario, imperioso allontanarlo dalla famiglia, ed il primo passo che mosse verso la soglia per allontanarsi la casa fu il primo passo del doloroso esilio ,il primo passo col quale cominciò a salire l’erta del suo calvario, fu il primo sorso del calice amaro dal quale avrebbe dovuto trangugiare goccia a goccia il fiele amaro fino all’ultimo sorso.

Là, lontano sulle spiagge del mare , fissando le onde rispecchianti l’azzurrino del cielo, l’esule, il martire con quanta nostalgia ripensava alla sposa adorata colla quale aveva vissuto anni felici, con quanto dolore avrà ripensato ai figli lontani, quei figli che amava con tutte le forze dell’anima, quei figli per i quali aveva sacrificato tutto, le sue energia, le sue forze, la sua vita.

Quale ansia mortale non avea occupato quel cuore a vedere l’avvenire oscuro, incerto che per egli era riservato? Il veder crollato nel nulla il lavoro di tanti anni, il veder infranto tutto l’edificio d’agiatezza e di benessere che dal nulla aveva innalzato, l’abbandono nel quale lo lasciavano coloro che per primi, almeno per puro sentimento di dovere avrebbero dovuto accorrere a lui per sollevarlo, a sussurrargli una parola amica, una parola di conforto, erano queste cose che per un’anima generosa e grande che servivano maggiormente a deprimere le forze morali, ad accentuare sempre più il suo dolore, a rendergli più desolante e languida la sua solitudine.

Sul suo volto smagrito si vedevano le tracce delle torture, delle angosce per le quali era passato.

Da tutta la sua persona traspariva un’aria abbattuta ,un sentimento di dolore che dava a vedere in lui la stanchezza di una continua lotta con un male fisico e morale.

In  certe ore della vita si rivela possente nella creatura umana il pensiero che la morte è vicina, ed egli il povero malato quante volte l’avrà provato. E l’idea di dover abbandonare per sempre la sposa, i figli, tutto quello che aveva di più caro quaggiù, certo gli avrà messo in cuore una certa agonia mortale.

Un altro uomo avrebbe dovuto di certo soccombere sotto il peso di tante calamità e di tanti affanni, lui no, pareva invece che la sua anima forte, temprata già alle aspre battaglie, l’ingagliardisse ed attingesse novella forza per sopportare tutto con rassegnazione.

E’ vile e codardo l’uomo che colpito da calamità, da dissesti finanziari o da qualsiasi altra sciagura umana si toglie la vita, dando egli nuova prova di poca fermezza di carattere; ma il sopportare tanto, fino all’eroismo, non so se è da uomo o da essere soprannaturale. Calmo sempre, sereno, rassegnato, fidava sempre nell’aiuto di Dio e nelle sue mani si era abbandonato.

Ma da quale fonte, da quale forza arcana attingeva quell’eroismo, quella rassegnazione eroica, santa, quella speranza, quella fede incrollabile? Fede degna di un martire, e martire lo era! Quella fede che non l’abbandonava mai ?

Dalla preghiera! Si, colla preghiera si rassegnava, colla preghiera sperava, nella preghiera fidava.”

A questo punto aveva termine la prima parte dell’epistola, un fregio infatti la divideva dalla seconda che così proseguiva:

“E qui sono nuovi ricordi che mi risorgono alla mente.

Mi par di vederlo ancora quando lui malato, steso sul suo letto di dolore, quale gioia non  provava nel vedermi, e mi stringeva a se, mi baciava, mi raccomandava di essere buono, di sperar sempre nel buon Dio che lo avrebbe guarito; di amare e rispettare la mamma buona; di amarti e di proteggerti, mia cara Annina, insieme ai cari e piccoli fratellini.

Nobile e santa la missione che egli mi ha lasciato, ma sarò io in grado di adempierla?

La sua flebile voce scendeva nel mio cuore come una dolce musica ed io ascoltavo con filiale devozione i paterni consigli.

I suoi occhi si fissavano in me ed in quelle languide pupille già presso a spegnersi leggevo quanto grande ed infinito era l’amore che aveva per noi, ed ora facendomi vedere accanto al suo capezzale, ora invece quando il tempo lo permetteva e la sua salute recandomi nella bella terrazza ove i fiori crescevano sotto la sua cura paterna, amava che io mi intrattenessi con lui in lieta e dolce conversazione. Quale sollievo non provavo nel renderlo oggetto delle mie cure premurose, portarle notizie della famiglia, di te, dei bambini!

Ed anche di te, si anche di te, mi chiedeva mia adorata Nannina? Te lo ricordi quando ti venivo a trovare  ti portavo la sua benedizione, i suoi baci, i suoi saluti e quando a lui dicevo che tu pregavi sempre per lui il buon Dio, che desideravi con tutta l’anima di baciarlo, di abbracciarlo, quando a lui dicevo che la tua vita e la mia l’avremmo sacrificata volentieri per lui, che tu desideravi a voce di dirgli che l’amavi con tutta l’anima, egli non mi rispondeva, ma come eloquente risposta vedevo quegli occhi alzarsi verso il cielo come in una muta preghiera, poi una lacrima scendeva furtiva per le scarne gote.

Non dimenticherò mai quel giorno, quando a lui che lo desiderava ardentemente gli portai la sorellina più piccola che piangeva sempre chiamandolo a nome: quale gioia di paradiso non mondò quel suo cuore straziato dal dolore; prenderla, stringerla al seno e baciarla in una frenesia convulsa erano cose da strappare le lacrime ad un cuore di pietra, ed anch'io piansi, piansi contento di  aver fatto brillare anche per un istante in quegli occhi un barlume di felicità.

Talvolta con parole piene di santa rassegnazione mi faceva capire quanto soffrisse nel vedersi ridotto in quella vita d’inerzia, lui assiduo, lui operoso, abituato al lavoro e sperava…sperava sempre che lo avrebbero richiamato all’antica posizione, e queste vane speranze lo accompagnarono, lo sorressero fino all’estremo sospiro!

Quanto non soffriva l’anima sua nel vedersi costretto a vivere lontano dalla casa, dalla famiglia, da noi suoi figli! Quante volte abbracciandomi con affetto mi diceva “figlio mio, il vedermi lontano da voi, in non potermi saziare della vostra vista, il non potervi vedere felici, per quella felicità per la quale ho sacrificato me stesso, è per me il maggior dolore che mi si possa infliggere”.

La solitudine non era fatta per lui; un tempo, lui felice , non gli pareva che ci fosse un mondo più bello al di là della sposa e dei figli che riempivano tutto il suo cuore. Quella solitudine gli riempiva l’animo di più acerbo dolore, pareva avesse paura di trovarsi solo. 

O quante volte trovandomi a lui d’accanto, contento e felice di vedermi a se vicino, abbracciandomi, le lacrime sgorgavano dai nostri occhi e scorrevano pure e limpide come stille di rugiada.

Un sentimento dolcissimo, casto come l’amore, immateriale come il sacrifizio, si accendeva nelle nostre anime, ci sollevava dalla terra per darci un’idea della vita degli angioli, delle dolcezze del Paradiso, e mi faceva parte delle sue gioie, dei suoi dolori delle sue speranze, dei suoi disinganni, delle sue tristezze ed il suo dire accelleravasi o rallentavasi a seconda del tenore della conversazione.

E che dire dell’ultima Pasqua che passò in famiglia ?

Il giorno Santo desiderò passarlo nella dolce compagnia, ed in quel giorno non parve quasi malato, parve ringiovanito di tanti anni. Circondato dalla cara sposa, da noi suoi figli si beava della nostra vista e su quel volto emaciato dai dolori brillava una gioia infinita.

Quel giorno più degli altri era tormentato da una tosse ostinata ed ogni colpo di quella tosse era per me come il ricevere una pugnalata al cuore: una tosse così secca, ostinata, che mi faceva male a sentirla.

Quale dolore, quale strazio, quale trafitta al cuore non avrà egli provato?

Ma il povero martire sopportava tutto in silenzio, con rassegnazione.

Se alcune rughe della fronte appalesavano la traccia indelebile dei dolori passati e presenti, se il suo brumo e perenne pallore tradiva la reazione divoratrice e concentrata di un’idea fissa e di un pensiero persistente, trovandosi in mezzo alla famiglia dimenticava tutto, si beava della contemplazione della nostra fiorente gioventù ,della bellezza dei figli suoi, dell’amore eroico, santo e puro della sposa. Il suo sorriso era pieno di calma e di serenità; i suoi occhi raggiavano di fiducia e di affetto, seduto vicino a noi le sue mani stringevano con tenerezza or l’uno or l’altro, deponendo sulla fronte come per benedizione il suo bacio affettuoso, mentre fissando in noi il suo sguardo vi si traluceva ad un tempo tutto il suo amore paterno, tutto l’eroismo di quell’anima grande e nobile.

Pochi giorni prima ch’egli morisse, quasi presago della prossima sua fine, volle donarmi una sua fotografia che aveva fatto fare espressamente. Nel darmela ricordo ancora che le lacrime sgorgavano copiose dal suo ciglio e così mi parlò:

“Prendi figlio mio, accettala in pegno del mio amore per te, altro non posso fare! Tienila sempre teco, e quando i dispiaceri, le disillusioni ti amareggeranno l’anima ti rammenterai come tuo padre ha sopportato tutto con rassegnazione; quando difficoltà ti si presenteranno ad ostacolarti il raggiungimento della tua meta, ti sovverrai con quanto ardimento e costanza tuo padre le ha combattute e felicemente superate”

Con affetto leggo ancora la piccola dedica:

“A mio figlio Raffaele, perché rammenti sempre i miei affettuosi consigli e i miei paterni ammonimenti, la mia benedizione.”

Il pennino disegnava abilmente una nuova ricercata decorazione , questa volta forse una sorta di sigla ,poi, indicata la nuova data del 25 aprile 1913 nel rigo successivo, continuava

“Giorno doloroso e d’infausta memoria per la mia vita.

Verso le ore 10 del mattino una telefonata della zia mi annuncia che il babbo è moribondo: con la morte nell’anima corro all’ospedale dal babbo.

Chi avrebbe mai preveduto un aggravamento così repentino?

Entrai nella camera, egli non avvertì la mia presenza, aveva l’immobilità di uno spettro, e guardava con occhio fisso senza parlare un punto nella stanza.

Sul pallido volto si rifletteva una placida calma, esso aveva compiuto ormai il grande e terribile atto della rinuncia a tutte le cose, a tutti gli affetti di questa vita.

La mamma presso di lui lo confortava colla preghiera.

In uno slancio d’amore filiale mi gettai al suo collo e con frenesia lo abbracciai, lo baciai. Tutto il suo corpo tremò come agitato da repentina scossa, i suoi occhi dilatati, smarriti, restarono fissi nei miei, sulle sue labbra livide passò un lieve sorriso, finché alzata la sua mano destra me la passò sulla fronte chiamandomi per nome.

Dapprincipio mi guardava con i suoi occhi aperti che parevan voler squarciare coll’intensità di quello sguardo fisso il denso velo che gli avvolgeva la mente e parve assopirsi.

Ma un nuovo bacio impresso su quella fronte livida ed il suono delle mie parole lo fecero rianimare. Il suo viso prese una tinta di carminio, il suo cuore si ravvivò.

Mi sorrise di nuovo; colla disperazione nell’anima lo abbracciai e ribaciai e: “Padre mio gli dissi, dammi la tua santa benedizione, perdona al figlio tuo i dispiaceri che ti ha dato!”

E stringendomi a se, “Raffaele, figlio mio” mi diceva “avvicinati ancor più, la mia voce è tanto debole, non ho che un soffio di vita, voglio che questo soffio penetri sino nell’anima tua. Come figlio, tu comprendi che ho ancora poche ore di vita; prima di lasciarti voglio dirti tutto ciò che il mio cuore racchiude per te; tu sei stato per me un figlio affettuoso, rispettoso, tu non preferirgli mai nessuno al tuo padre che se ne va e che non rimpiange sulla terra altro che la sua cara famiglia”.

Io muto compreso tutto dal momento solenne, del quale ero spettatore, ascoltavo con filiale devozione quella voce debole che s’insinuava nelle più profonde fibre del mio cuore e mi faceva comprendere il tragico significato di quel momento; coll’anima amareggiata, cogli occhi fissi su quel corpo quasi esanime, su quegli occhi presso a spegnersi, piangevo amaramente.

Ma il morente continuava “non ti intenerire figlio mio, sii forte; siamo uomini e dobbiamo essere forti, quando non sarò più voglio che ti ricordi le mie ultime parole, accettale come testamento”.

“Parla babbo, ascolto ed ubbidirò.”

“Giunto al termine della mia vita, sono sempre più convinto che la legge del sacrifizio è la prima regola alla quale dobbiamo attenerci per essere felici, quando io non sarò più rammentati di seguire quella che è stata per me la legge di tutta la mia vita: rinunciare alle proprie passioni per adempiere i propri doveri, non tener conto altro che di Dio e della propria coscienza”.

S’arrestò aveva detto abbastanza, troppo forse, ma in quel momento la diga era rotta, le dolorose impressioni ammassate da lungo tempo, la disperazione soffocata, scoppiarono: se non avesse potuto parlare il suo cuore sarebbe scoppiato.

Quale forza morale aveva bisognato a quell’uomo per dissimulare tanto bene quel rimpianto immenso che gli rodeva l’anima, che lo divorava a fuoco lento?

Dinanzi a quell’esplosione di tenerezza paterna io rimasi pietrificato, annientato.

Ora figlio mio – proseguiva – voglio da te un giuramento sacro e solenne, amerai e rispetterai con devozione illimitata colei che è stata per te la tua seconda mamma; ama la tua sorella, ella ha grande bisogno delle tue cure, ad essa sii guida nella vita, ama i fratellini perché essi son degni del tuo amore! Me lo prometti figlio mio?”

Scoppiai in lacrime e compreso dalla sacra solennità del momento risposi :

“Si babbo te lo prometto! Te lo giuro!”

Tuttora mi par rivedere la scarna mano alzarsi e benedirmi, indi la sua persona riprese la solita immobilità, mi guardò ancora un momento, poi rovesciò la testa sui guanciali.

L’emozione aveva dovuto abbatterlo, volse gli occhi attorno, si toccò la fronte, mi sorrise col fare di un fanciullo, poi abbassò le palpebre e si addormentò.

Era il sonno che prolungava l’agonia; il respiro poco a poco veniva mancandogli.

Alle ore 9,30 del funesto giorno, tra dolori inenarrabili il povero babbo, vinto e prostrato dal peso di quella croce che per lunghi anni aveva portato, compiva il suo sacrificio, il suo olocausto.”

Un terzo raffinato orpello tracciato al centro della riga seguente  poi le ultime parole, l’estremo omaggio all’amatissimo padre e una preghiera…

“Tu non sei più babbo amatissimo, la morte inesorabile ha reciso d’un colpo anche la tua vita, a noi tanto cara e bisognosa!

La tua santa e nobile vita fu un epopea di virtù ,di rassegnazione e di fede. Questa fede che tu mi inculcasti fin da fanciullo nel cuore, mi dice che tu godi in cielo quella pace, quella felicità che tanto agognasti.

Di lassù, babbo, volgi lo sguardo ai tuoi figli adorati, rammenta che per essi l’avvenire è oscuro ed incerto; rischiara ad essi la via che per loro è tracciata, proteggili dai pericoli, impetra da Dio quella felicità terrena che finora non abbiamo potuto godere, poiché abbiamo già abbastanza sofferto nel vederci così crudelmente provati.”

In fondo al foglio logoro la firma, quella di  Raffaele Lucchini.

 

Ancora svegli? Meno male, ora possiamo tornare ad occuparci della sorella.

         Nannina era una donna particolare, ossessionata dal terrore  di diventare povera. Al contrario del marito non sembra avesse un buon rapporto con mia madre, particolarmente indicativa è la lettera che zio William scrisse al fratello ,probabilmente fuori città  per motivi di studio, il 21 agosto 1948, nella quale a proposito dell’incontro tra le due donne scriveva : “Ella (Fernanda N.d.A.) si è veramente convinta che non c’è niente da fare.”

Sicuramente pesò sulla fragile personalità di Anna Maria la tragedia del figlio Pietro, perso all’alba del suo 19° anno, nella guerra d’Albania, ma a questo arriveremo tra breve.

Nonna lavorò dal 15 novembre del 1915 al 22 febbraio del 1919 presso l’ufficio contabilità della Banca Commerciale Italiana, in seguito collaborò nel 1934-35 , nella rubrica enigmistica ,alla redazione dell’Osservatore della Domenica.

Ricordo una vecchina, chiusa nell’altera solitudine di un’antica e immensa villa di campagna nei pressi di Grottaferrata, persa nelle confuse e ovattate atmosfere di un tempo lontano e favoloso.

Capelli arruffati, sguardo perso,  sembrava rifugiarsi in un  universo  parallelo rapita dal profumo di un’epoca che non era più la sua  popolata di gente altolocata appartenente alla società borghese della Belle epoque , un mondo ormai scomparso , decadente, vagamente dannunziano, ma potrei anche sbagliare :  forse si trattava più semplicemente di stravaganti allucinazioni da marijuana.

Probabilmente quel suo aspetto trasandato, quel look   sempre  incasinato, quell’atteggiamento austero,  quasi superbo , quel suo fare confusionario e demodé , erano solo il risultato  dei lontani ma sempre affascinanti ricordi cui s’aggrappava disperatamente nella speranza di rivivere la scintillante vita di un tempo.

Nella sua dimora d’altronde , la villa di Grottaferrata,  sembrava ancora aleggiare l’etichetta della vecchia aristocrazia e la prosopopea dell’ambiziosa borghesia dei primi del secolo.

Il marito Caio , uomo tutto d’un pezzo , retto, onesto,  inspiegabilmente calvo – nell’evolversi della specie non troveremo altri esemplari con tale peculiarità - fu  un vero pezzo da novanta nell’ambito del ceto medio del tempo, uno che contava.  Grazie al cazzo! Faceva il ragioniere!

Forte di quella personalità singolare e volitiva che avrebbe tramandato a papà, aveva, come sarebbe poi capitato a tutta la sua discendenza di sesso maschile ,  un solo padrone: la moglie.

Viso tondeggiante , fronte alta, sguardo severo e fisso in un ostinato pensiero , segno di una pronta intelligenza,  lineamenti delicati  e labbra esili lasciò per questioni politiche il Credito Meridionale  , il regime infatti voleva colonizzare anche quell'ente inserendo al suo interno docili marionette di chiara  fede fascista .  Si  trasferì pertanto da Benevento a Roma nell'appartamento di via Pompeo Magno 2, diventando dirigente del  C.o.n.i., quindi  fondò nel 1932, e diresse fino alla  morte, la Sportass, in seguito, promosso capo degli uffici amministrativi, intraprese una rapida carriera diventando una figura di rilievo nella vita capitolina di quegli anni.

Da alcune frasi del testamento redatto da nonna Nannina in data 11/6/1957 si deduce che la famiglia passò un periodaccio nel 1935, scrive infatti rivolgendosi ai figli ed enunciando una serie di ultime volontà :

 

 …seguitare o principiare, se non l’ ho fatto io a pagare il mensile per un adattamento religioso di un missionario che preghi Iddio per le anime di papà, mia e di Piero e da qui a mille anni per tutti noi ( voto fatto da me e da papà quando nel 1935 salvò la mia famiglia dal baratro della miseria e della sua cecità….) ”.

  

Continuando la lettura del manoscritto la situazione sembra chiarirsi quando accenna alle disposizioni testamentarie in favore della tata  Felicetta che l’aiutò a crescere i figli :

 

 detrarre tutto ciò che per Legge spetta a Felicetta la quale se nel suddetto periodo io potetti lavorare e guadagnare parecchio lo devo a Lei che mi procurava tranquillità nel sorvegliavi in mia assenza, nel volervi veramente bene e nel darvi da mangiare con ciò che le lasciavo, come meglio potevo. Povero papà per ben 7 anni non ha potuto lavorare ; prima di tutto per un esaurimento nervoso, dovuto alla caduta della sua banca, poi non aveva la tessera fascista, ed infine gli principiavano a scendere le cateratte, lo adoravo tanto che il mio più grande dolore era quello di vedere lui con la sua bella intelligenza ridotto su una poltrona e qualche volta vederlo pure a piangere. Ero disperata però più forte della mia disperazione era la mia fede incrollabile e tanto feci e tanto pregai che Iddio per mezzo del E. P.  Zacchi ci salvò…”

Chi fosse questo E. P.  Zacchi non mi è stato possibile appurare , ho scorso queste pagine troppo tardi per poterlo chiedere a qualcuno.

Caio fu nominato Cavaliere dell’Ordine dei S.S.. Maurizio e Lazzaro da S.M. Vittorio Emanuele III° nel 1939  ,  il Duce stesso gli conferì due anni dopo la stella al merito   sportivo, infine, sempre nel 1941,   fu munito  dell’alta onorificenza di Ufficiale della Corona d’Italia .

Quale fu il suo atteggiamento politico con il governo dell’epoca non è dato sapere, certamente non ne fu oppositore ma neanche strenuo difensore se ,  come abbiamo appurato con la lettura di alcuni periodi estrapolati dal legato della moglie ,”   non aveva la tessera fascista ”.

Tra le righe del testamento olografo scritto su quattro facciate di un foglio di carta , tutte marginate sulla sinistra con tratti a matita , affiora di continuo l’astio e il malumore covato da Anna Maria per i figli maggiori da lei comunque amati. 

 

Oggi mi sento tanto male, i figli mi  hanno fatto un’altra delle solite cattive azioni. E’ sabato e sono sola , l’ultima mia pressione è 115 ma ora non lo so, mi sento morire e a mala pena mi son potuta strascinare alla porta incontro per chiamare la sig. Bardini e l’ho pregata di assistermi un pochino perché non indovino nemmeno a scrivere bene una proposizione di seguito.

Ed ora sto qui per esplicare le ultime volontà di mio marito ( ci adoravamo). Il testamento io non l’ho potuto trovare, Iddio solo sa dove sarà andato a finire. Io so che c’era ma non l’ ho letto perché quando lui parlava di queste cose mi otturavo le orecchie per non sentirlo e me ne andavo in un’altra stanza; avevo ricevuto l’ordine dai medici di tenerlo tranquillo; e poi io speravo che non morisse. Chi ama davvero non pensa e non crede che la persona amato possa morire!

Lui mi diceva sempre “Io ho fatto, ricordati, come ha fatto mio padre”  e tre giorni avanti prima della trombosi a Grottaferrata disse a Felicetta presente Maria Rosaria ( perché io ero a letto a Roma) “Non ti preoccupare Felicetta ho provveduto pure per te”.

Dunque il testamento c’era , ma io non l’ho trovato.

Per trentacinque anni nelle sue numerose vicissitudini io ho dovuto cooperare per mantenere con il mio lavoro la nostra numerosa famiglia, ed il fruttato del mio operato è stato sempre così: quello che era suo era mio, e quello che era mio era prima di tutto suo come capo di casa e il tutto era per i nostri figliuoli, come deve una normale famiglia, e quando due sposi si adorano come ci adoravamo noi due senza mai il minimo accenno di discussione e senza pronunciare mai le parole “ questo è mio e questo è tuo”.

 

In Ottobre , dopo una pausa di quattro mesi, nonna riprende  la penna in mano e così prosegue:

 

Perciò tutto quel poco o molto che troverete cercate da per tutto come ho fatto io, perché lui mi è venuto a mancare all’improvviso e desidero che sia diviso secondo le sue volontà.

Ripeto le sue ultime volontà a me espresse erano come dissi la prima sera al primo approccio tra noi, l’uso frutto tutto alla moglie e il capitale tutto ai nipoti in parti uguali, ed infine aggiungeva “ come ha fatto mio padre” però la villa dell’Acacie, (poiché aveva paura che le sue due ultime figliuole non arrivasse a portarle a compimento come poi è stato) doveva essere divisa in due appartamentini dei quali l’uso frutto a me e la proprietà doveva appartenere uno ad Adriana e l’altro a Maria Rosaria. Ed è per questo che io ho voluto vendere i miei titoli –la nonna sembra giocasse in borsa con ottimi profitti – per cominciare a comprare il terreno, lasciandomi la ricevuta e due assegni in bianco per ritirare dalla Banca del Lavoro, l’anticipazione e tutto il resto, e di vendere la mia villa nel caso non avessi potuto fabbricare la Villa delle Acacie. Voi avete voluto fare il comodo vostro mettendo me a sessantanni a combattere con tutte le forze e a lavorare per poter tirare avanti le due sorelle. Iddio e vostro Padre vi perdonino, come io vi ho perdonato.

Però ora che con il mio lavoro passato e presente ho potuto dimostrare alla legge che tutto ciò che ho è mio, aggiungo la clausola che i nipoti maschi ritirino la loro parte quando avranno compiuto i venticinque anni d’età e le femmine se dovessero sposare con gli uomini e con Dio ritirino il loro avere il giorno dopo al loro matrimonio o vestizione da monaca; sarà la loro piccola o grande dotazione a seconda di ciò che rimarrà alla mia morte; e il ricavato di tutto quello che venderete, dico tutto, cioè fino all’ultimo spillo, così spero non ci saranno liti e il ricavato sarà dei nipoti.

La villa deve essere divisa tra le due ultime femmine dato che a loro non ho potuto dare la villa delle Acacie come lui voleva poiché aveva voluto fare il comodo vostro (pagate)( pagate)con un mucchio di mascalzonate , pagate a rispettare la volontà di vostro padre. Vi era un bel patrimonio però aveva bisogno di essere ancora unito per costituirlo e voi non avete voluto lasciarlo unito come lui diceva ed è rimasto quello che è rimasto.

Prima di dividere aggiungo che dal ricavo di tutto ciò che rimarrà alla mia morte si debbono togliere prima di tutto le 756.000 lire che io ho adoperato per pagare le sole rette e non tutte al collegio di Maria Rosaria e consegnarle a lei il giorno dopo al matrimonio o se no quando avrà compiuto i 27 anni come l’ ha avuta Adriana. Se sposerà prima che io muoia glie le consegnerò io. Voi tutti avete preso la liquidazione di papà che eravate già belli e sistemati e così la deve avere pure Maria Rosaria..

Il post scriptum che chiude il documento  è, se possibile, ancora più esplicito  e amaro :

P.S. Se queste clausole le potrò portare a compimento, si capisce, saranno annullate, però allora ho paura che resti ben poco. Il testamento sta…

Spero che l’esecuzione delle mie volontà non incontri ostacoli di sorta. Che cosa potevano pretendere da me coloro che mi hanno stimato e amato così poco? Io confido quindi nella loro indifferenza; la stessa indifferenza con la quale mi considerarono in vita.

Così sia.

Il mio sposo ed io ci siamo amati senza che l’uno mettesse l’altro sull’altare e di conseguenza nessuno dei due ha dovuto piegare le ginocchia a terra, e ci siamo stimati pur riconoscendo i nostri reciproci difetti e le nostre reciproche virtù.

 

La nonna non doveva stare poi così male come aveva lasciato credere all’inizio del testo ,  chiuderà infatti gli occhi  diciassette anni dopo, il 9 marzo 1974 alle ore 8,45 , all’ospedale S. Giacomo di Roma .

Un capitolo a parte merita la figura eroica di zio Pietro morto nella guerra di Grecia nel gennaio  1941.  Lo chiameremo a volte Pietro , altre  Piero ,  il primo era infatti il vero nome di battesimo , il secondo quello con il quale gli si rivolgevano i suoi cari .

La Gazzetta di Benevento del 20/2/22 riportava questo breve trafiletto:
“Nella culla preparata da qualche mese, con ansia amorosa, da quella gentile e giovane signora che è Lucchini Anna – moglie del Cav. Tiddi Caio, direttore della Sede di Benevento del Credito Popolare Meridionale - ora sorride , dal giorno dieci del corrente mese, un grazioso bambino al quale è stato imposto il nome di Piero per ricordare l’avo paterno.

Noi auguriamo ai giovani felici genitori che il sorriso del loro Pierino allieti sempre la Loro Vita.”  

Purtroppo quel sorriso si spense dopo soli diciott’ anni sul fronte greco albanese.

Fra ritagli di giornale e logori documenti scovati tra le carte conservate da una madre per serbare il ricordo del figlio ucciso dalla guerra, ho cercato di ricostruire la breve ed intrepida esistenza di questo ragazzino, sciagurato figlio di un’epoca tanto crepuscolare e cruenta.

Per ovvie ragioni mi limiterò a rievocare per sommi capi la sua storia, chi  avrà tempo e voglia potrà sfogliare il mio lavoro a lui dedicato,” Da zio Piero alla Luna fermata Tepeleni” – è qui da qualche parte tra i ripiani della libreria -  nel quale ,oltre ad inquadrare il periodo storico degli avvenimenti narrati, ho raccolto le lettere dal fronte di Piero alla famiglia e le risposte dei suoi cari, tuttavia non sarà  male spendere qualche riga per comprendere com’era l’Italia di quegli anni .

Come si viveva a quei tempi , qual’ era la routine di tutti i giorni ? Cosa si ascoltava alla radio? Quali i divi? I miti? L’attualità? Gli svaghi? In un periodo vissuto sotto un cielo particolarmente fosco all’orizzonte  presago di eventi tanto drammatici.

Il sottoscritto vedrà la luce – e pure poca – diversi anni dopo quindi per affrescare questo spaccato di vita quotidiana si vedrà costretto ad attingere a piene mani alla pubblicazione  “L’Italia 1920-1940 , vent’anni di immagini della nostra vita” dello scrittore Giuseppe Tarozzi  edito da Marietti : una vera miniera d’informazioni cui affiderà i suoi leggendari polpastrelli da corsa .

Negli ultimi due capitoli del libro – Col Fiato sospeso e Ultimo anno di pace - si traccia un circostanziato profilo del periodo tra il 1939 e il 1940 ,   sfogliando quelle pagine ho respirato il clima di quei giorni e ritrovato  parte delle vicende accennate nel fitto epistolario tra Piero e i suoi familiari .

Nelle famiglie italiane il capo è il padre , indiscusse le sue decisioni o quasi, questo almeno sulla carta, la realtà però è ben diversa e , almeno in via Pompeo Magno 2 , chi porta i pantaloni è Anna Maria. Walter sta per completare gli studi classici al liceo “Torquato Tasso” di via Sicilia e ,come ci racconta egli  stesso nelle lettere indirizzate al fratello , ha continuamente a che fare con “quei benedetti classici latini”, William ormai lavora , Maria Romana frequenta un collegio di suore e Adriana è all’ultimo anno delle scuole elementari nell’istituto Regina Elena di via Puglie , da pochi mesi  casa Tiddi è rallegrata dalla piccola Maria Rosaria che, coccolata da fratelli e sorelle ,  comincia già a chiamare papà” .

In una famiglia tanto unita manca soltanto , come scrive mamma Anna Maria, il pulcino più chiassoso

Un capo indispensabile nell’abbigliamento da uomo è il cappello Borsalino – quello di mio nonno oggi fa bella mostra di sé  appeso alla parete del mio studio -  le cravatte sono di seta , le automobili più in voga la Balilla e la Topolino e le radio più diffuse la Marelli e l’Allocchio Bacchini ,  trasmettono in continuazione il ritornello del momento :” Abbassa la tua radio per favor, se vuoi sentire i palpiti del mio cuor…”

Generalmente si abita in appartamenti che hanno più stanze di quelle di oggi, in quelli più esclusivi  – probabilmente quello di via Pompeo Magno lo era - c’è il salotto o salottino, la stanza da pranzo con la cucina - tinello, la camera matrimoniale e quella per i figli, i servizi igienici di solito sono bui e freddi, il telefono un lusso di pochi, borghesi, benestanti e professionisti.

Gli uomini portano camicie bianche,  larghe e lunghe – beati loro – usano calze sopra al ginocchio e , spesso, anche giarrettiere, dopo cena si recano spesso al caffè per giocare a carte o al biliardo – in questo gioco Pietro è un vero campione – o per mandar giù una Strega, un Millefiori, un Maraschino o un doppio Kummel.

Alla donna viceversa non è consentito frequentare quei locali  né fumare per strada, se lo fa viene bollata per puttana.

Divampa la mania dei romanzi ungheresi infarciti di amori contrastati dal sapore vagamente provinciale e di relazioni tormentate,  incredibilmente in famiglia è proprio l’erudito Walter a divorarne in quantità industriali , non contento negli anni a venire proseguirà  con tale deleteria abitudine passando alle insulse storielle   della collana Harmony.

Spesso si va al cinema o a Piazza Venezia e la domenica tutti a Messa  i genitori  dietro, i figli avanti due o tre metri ben vestiti ed educati.  Papà Caio dopo la doverosa funzione domenicale nella Chiesa del Collegio Leoniano Casa della Missione a due passi da casa,  se riesce a liberarsi dell’ingombrante presenza  della consorte porta i ragazzi a spasso per la città  , non gli difetta il senso dell’umorismo e –  almeno stando ai racconti di mio padre – non disdegna di divertire la numerosa prole scagliando dalla gran cassa assordanti boati  che depositano nell’aria  nuvolette pestilenziali  capaci di abbattere interi gruppi di malcapitati passanti.

Proverbiale l’episodio narrato dalla più piccola della cucciolata .

Un pomeriggio ,  mentre padre e figlia transitano  per piazza della Libertà,  nonno Caio , proprio lui, così educato e cortese, a volte persino severo e taciturno , esplode all’improvviso  una micidiale bordata delle sue continuando poi con aria indifferente a passeggiare.  Maria Rosaria resta dapprima attonita, poi , mentre gli echi della deflagrazione si perdono lontano, con aria di rimprovero gli domanda: “Ma papà che potrebbe pensare la gente?”  Al che il genitore , senza minimamente s scomporsi: “ Che potresti essere stata tu .”

Sarà  lui ad inaugurare  in famiglia la nobile pratica del meteorismo , abitudine memorizzata nel nostro codice genetico,  assai in uso  ancora oggi tra i componenti della casata. Una stirpe di scoreggioni insomma che ha volutamente disatteso  uno dei più noti precetti di Monsignor Della Casa:

 Perciocchè non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anche si disdice…”

Il domani appare incerto, gli alleati ci stanno francamente antipatici ma nello stesso tempo ci terrorizzano, si comincia a sospettare che il fascismo sia stato solo un cumulo di bugie e lo stesso Mussolini perde di credibilità,  così , facendo il verso ad una canzone di moda,  si canticchia :

Ci ha tolto prima l’oro e poi l’argento, lo zucchero e il caffè /Vento vento portalo via con te!”
Si raccontano barzellette come queste:
Babbo cosa vuol dire fascismo?” Chiede il figlio a tavola,  e il padre:“ Mangia e taci!”

               Oppure: “Vorrei sapere cosa significa la parola Regime.”

         E la definizione : “ Termine medico  che indica una particolare  maniera di mangiare”.                                         

         Frattanto la mistica fascista diventa mastica fascista.

Un operaio guadagna di media 350 £ al mese, il costo della vita sale vertiginosamente.

Il Duce alla nascita del settimo figlio consegna una medaglietta in premio ed invita le madri prolifiche alla S.F.F.  (Sacra dei focolari fecondi.)

Si promuove una campagna contro il caffè e chi non ne può proprio fare a meno è definito fremostenico o acidulo.

Fra queste ed altre stronzate del genere si dichiara che l’Italia ha il diritto di proteggere i suoi figli dalla ferocia delle armate dell’Albania, nazione che secondo la propaganda avrebbe  l’impellente necessità di rinascere sotto il segno del Littorio.”

Si sbarca in Albania, re Zog fugge da Tirana e si realizza finalmente il sogno skipetaro, lo stesso Piero, in una delle sue ultime si autodefinisce “ Il Vs. Pietro Skipetaro."

Si pretende che L’Albania abbia sempre aspirato a diventare italiana , in questo forse c’è del vero, e che fin dall’epoca delle Repubbliche marinare  aspirasse a passare sotto i gonfaloni della Serenissima.

In un clima tanto teso nelle famiglie si resta con il fiato sospeso , c’è infatti anche chi, come il nostro Pietro, si offre volontario.

L’Eiar per distendere i nervi manda in onda canzonette del tipo  Com’è bello andar sulla carrozzella…” o “Piccola Butterfly”, ma il pezzo che va per la maggiore  è “Signorina Grandi Firme  di Alberto Rabagliati   ,  divo del momento insieme a Wanda Osiris e Amedeo Nazzari , nel frattempo gli slogan incisi sui muri delle città si fanno sempre più numerosi: “Noi tireremo diritto!” “Ardisco e non ordisco!” “Chi ha ferro ha pane!” “Soltanto Iddio può piegare la volontà fascista, gli uomini e le cose, mai!”

La campagna antifrancese si fa sempre più incalzante, parole francesi di tipo comune come pardon o tailleur vengono messe al bando, al loro posto si deve dire scusate e giacca, intanto si fanno più frequenti le esercitazioni civili e si provano le maschere antigas – Walter in una delle sue lettere accenna a tali addestramenti definendoli un autentico spasso -  si è costretti ad assistere alle esercitazioni  dei pompieri o a provare a spegnere incendi virtuali , in ogni cantina si tengono sacchi pieni di sabbia e terriccio, l’acqua intanto diventa preziosissima.

L’uso delle maschere antigas si insegna anche nelle scuole insieme al disprezzo per i comunisti, la materia più ambita dai professori è quella che insegna a diventare “fascisti fino al midollo.”

E’ iniziata la bella stagione , si comincia ad andare al mare e  sulla spiaggia le ragazze adottano una nuova moda  , non più gonne ma una tela elasticizzata a fiorellini con una sottana che sfiora l ’ inguine, dietro scollature mozzafiato.

Nelle case si capisce che la guerra è alle porte , alla radio si trasmettono documentari dai titoli piuttosto inquietanti: “Come nasce un cannone”, “I mezzi moderni della guerra d’assalto” o “Aviazione la protagonista dei combattimenti” , si effettuano intanto prove di oscuramento, i vetri delle finestre vengono coperti con carta blu.

I giornali escono in edizioni ridotte per risparmiare sulla cellulosa , i cittadini vengono continuamente sollecitati a contenere rigorosamente – allora si diceva ferreamente – gli sprechi.

L’Ambrosiana Inter vince il campionato, intanto anche sui vetri delle scuole compare la carta blu, il 10 giugno è un lunedì, fa caldo , le 17 sono passate da poco , corre voce  che il Duce parlerà  alla radio.

I successi della Germania nazista in Cecoslovacchia consolidano nel Dittatore e soprattutto nel suo ministro degli esteri Ciano il proponimento di una conquista di prestigio che possa affiancare l’Italia alla Germania nel suo trionfale cammino, l’obiettivo è il paese delle Aquile , meta agognata da tempo.

Zona d’influenza italiana sin dalle guerre balcaniche l’Albania è garantita dalle nostre truppe fin dal 1920 e nel 1928 la definitiva alleanza tra le due nazioni prevede l’invio di una missione italiana nel paese balcanico per l’istruzione dei soldati e la costruzione di fortificazioni ai confini.

Zog si è fatto proclamare re dell’Albania con l’aiuto finanziario italiano fin dal 1924 , ottenuto però quel che voleva,  agli inizi degli anni ’30,  muta atteggiamento nei confronti dell’alleato, il popolo albanese viceversa vede di buon occhio una soluzione energica dell’Italia nei confronti del regime di Tirana.

La paura che il colosso tedesco possa impossessarsi,  dopo l’occupazione della Cecoslovacchia,  anche del petrolio albanese convince Ciano , mosso anche da rivalse personali che non staremo  qui ad elencare, della necessità di partire con la Manovra T, nome in codice dell’operazione Albania : alle ore 12 del 6 aprile sarebbe scaduto l’ultimatum per l’occupazione .

Zog non cede e  , alle 18 dello stesso giorno, l’aviazione tricolore sorvola le città albanesi lanciando volantini con l’annuncio dell’arrivo dell’Amica Italia.

Intanto da Bari parte il primo contingente ,21.900 uomini con un imponente appoggio di navi e sei stormi da caccia, ricognizione e trasporto. Il mattino del  7 aprile 1939, Venerdì Santo, alle 4,30,  il corpo d’armata italiano mette piede in Albania, le quattro colonne sbarcano a S. Giovanni di Madua , Valona e Santi.

A Durazzo il primo tributo di sangue ,12 morti e 53 feriti, ma siamo solo all’inizio, il 12 aprile la corona albanese viene offerta a Vittorio Emanuele III°.

Piero chiede di essere inviato in Africa Settentrionale per combattere in prima linea , non essendo però possibile accontentarlo pretende di partire per l’Albania con i primi corpi di spedizione e, grazie all’aiuto dell’Ammiraglio Riccardi e di uno zio funzionario a Tirana ottiene quanto desidera e , ricevuto il permesso di lasciare la scuola cinematografisti di Bolzano,  si unisce ai bersaglieri dell’11a armata diretta nella zona di Valona- Tepeleni , dove sbarca nel maggio 1940.

Si comincia a fare sul serio e nelle trincee si respira un’aria meno carica di enfasi che in patria , il malumore delle truppe ricacciate verso l’interno dalla guerriglia  si fa ogni giorno più radicato ed anche nelle lettere di Piero sfuggite alla censura si legge un sordo rancore contro i suoi carnefici e la retorica fascista.

La signora Sansonetti, moglie di un dottore che abita al piano di sotto di via Pompeo Magno, implora in una sua il ragazzo di “non parlare di cose militari, non fare politica” poi aggiunge “qui la situazione è critica! Hai capito?”

La tragica decisione di portare l’attacco alla Grecia è dettata dalla necessità del regime , vacillante all’interno, di risollevare le sorti militari dopo la cocente delusione del fallimento della guerra in Africa. L’offensiva di Graziani in Libia è fallita, la guerra lampo non si rivela tale e rischia di diventare,  soprattutto su alcuni fronti, come appunto quello greco – albanese , una guerra di posizione .

Il Paese ha bisogno di un successo militare per risvegliare un’opinione pubblica che ha perso fiducia nel suo leader.

Oltre ai combattimenti i soldati devono vedersela anche con un clima inospitale e con la febbre malarica, lo stesso Piero , come tanti altri suoi commilitoni si ammala , la sua forte fibra tuttavia gli permette di rimettersi in fretta per tornare in prima linea.

Galeazzo Ciano nel frattempo cerca di preparare il campo per l’esercito e compra numerose personalità greche  persuaso che questo possa aprire la strada ad un’incruenta annessione della Grecia da parte italiana,  tale convinzione si rileverà purtroppo un  tragico errore. Intanto lo Stato Maggiore prepara il piano d’intervento denominato Emergenza G.

In Grecia Metaxas rafforza la sua posizione interna e fortifica le zone di confine con l’Albania, il 27 ottobre riceve l’ambasciatore Grazzi che gli reca l’ultimatum: poter occupare alcune posizioni strategiche greche per la guerra contro la Gran Bretagna.

L’Italia mette in campo 87.000 soldati divisi in 86 battaglioni con 686 pezzi d’artiglieria.

Piero arruolato nei bersaglieri si schiera con il suo battaglione nella zona dell’11a armata, in prima linea, sul fronte di Tepeleni, a ridosso dei confini con l’Epiro dove più violenti si faranno in seguito i contrattacchi dei militari greci.

La mattina del 28 ottobre ha inizio il conflitto, sulla Vojussa si muovono i bersaglieri della Centauro , ancora senza equipaggiamento i soldati avanzano in territorio greco mentre il maltempo imperversa.

All’inizio solo brevi scaramucce, fino al 31 ottobre i morti si contano sulle dita di una mano, Starace dopo una rapida escursione in Grecia chiede ed ottiene la concessione di una medaglia d’oro.

Il 1° novembre Mussolini ,dopo una vacanza lampo in Albania, rientra a Roma, contemporaneamente il generale Papagos blocca l’avanzata delle nostre truppe e sferra il contrattacco: per i nostri fanti comincia il calvario.

Mentre i soldati muoiono come mosche,  nella capitale si cerca un capro espiatorio per giustificare ,almeno in parte, una mossa tanto avventata quanto tragica.

In Grecia la situazione va ulteriormente peggiorando , il 18 novembre il Duce parla davanti ai gerarchi del P.N.F. e dopo un discorso carico di retorica nel quale addebita al maltempo e alla mala sorte  il fallimento della campagna militare,  conclude con una delle sue frasi ad effetto assicurando alla platea entusiasta che:

“Spezzeremo le reni alla Grecia ! In due o otto mesi, non importa!”

In realtà saranno loro a rompere il culo a  noi.

Sul fronte della 11a armata, quella dove milita Piero, la pressione dei greci si fa fortissima, i loro mortai devastano le nostre postazioni, i combattimenti sono ormai corpo a corpo, baionetta, bomba a mano e rivoltella.

Il 19 novembre 1940 in uno dei più aspri scontri il 5° reggimento bersaglieri, proprio quello del sergente Tiddi, più precisamente il 26° reparto artieri, è impegnato in una cruenta battaglia a Zarapana Ponticantes, in tale occasione Piero guadagna la sua prima medaglia d’argento, ne leggeremo le motivazioni più avanti.

Dall’Italia in maniera confusa si mandano rinforzi in tutta fretta ma i nuovi arrivati non sono equipaggiati, mancano loro i mezzi di trasporto, i cannoni, gli automezzi, persino i muli, sono soltanto soldati inesperti mandati incontro a morte certa.

Sembra di tornare ai sanguinosi combattimenti della grande guerra: migliaia di morti per poche centinaia di terreno perse nello scontro del giorno successivo.

Il 3 dicembre il quadro peggiora ulteriormente , il nemico rompe il nostro schieramento sul settore di Pernati-Klisura, zona di operazione del   5° reggimento artieri di Piero , la lotta si fa durissima ed estremamente cruenta.

In Patria il regime ha disperatamente bisogno di mettere qualcuno sul banco degli imputati, viene sacrificato Badoglio e al suo posto è nominato capo di Stato Maggiore Cavallero.

Alla fine il fronte si stabilizza a prezzo di immani sacrifici, i nostri hanno tenuto, ma proprio in uno di questi sanguinosi combattimenti, l’8 gennaio 1941 a Klisura – la zona in cui il 3 dicembre le forze nemiche avevano  tagliato in due l’11a armata – Piero resta gravemente ferito.

Il giorno successivo, 9 gennaio 1941 – ma più probabilmente il 10 -  spirerà all’ospedale da campo n°480 di Klisura sul fronte greco-albanese.

La sua famiglia continuerà a scrivergli a lungo, man mano che passano i giorni con maggior trepidazione  , finché il Ministero della Guerra si deciderà ad inviare una cartolina alla famiglia , n° di protocollo 9898/M , solo poche parole dattiloscritte:

“Si certifica che, da comunicazione ricevuta dalle competenti autorità, il Sergente cinematografista Tiddi Pietro di Caio, risulta deceduto sul fronte greco-albanese 1l 10.1.1941, per ferita alla testa e all’addome”

Il capo ufficio Colonnello Luigi Ricci

Diciannove anni dopo, il 1° ottobre 1960 , con una mesta cerimonia  svoltasi nel sacrario dei caduti al Verano, vengono consegnate ai familiari delle vittime le salme di 24 caduti sul fronte greco-albanese, fanno parte del I° gruppo di 3.866 portate a Bari qualche tempo prima , fra queste c’è anche quella del Sergente Pietro Tiddi.

Ma chi era veramente questa testa calda? 

Non aveva certamente un carattere docile e arrendevole e, a differenza dei fratelli , non si piegava facilmente a pretese ed  imposizioni , quelle del padre ma , soprattutto, quelle  della madre – vera sovrana incontrastata del focolare domestico -  lo testimoniano le continue reprimende contenute nei pistolotti dei  congiunti inviati prima a Bolzano poi al fronte , ma anche nelle zuccherose lettere di Bianca,  il suo Angelo come egli stesso la definisce in una lettera spedita alla madre.

Anche questa serie di precetti barbogi , troppo spesso riproposti in chiave di autentiche filippiche , contribuiranno alla tragica decisione del ragazzo di dimostrare il proprio valore : …mamma tua ha dimenticato le cattive parole che le dicesti….fatti ben volere dai superiori…o ancora…cerca di essere più buono…e i fratelli…cerca di non spendere più del necessario…non dire parolacce…cerca di evitare di dire bugie…non chiamare scocciante la tromba, essa è la voce del dovere! 

Un vero tribunale di rompicoglioni insomma.

Un temperamento  come quello di Piero mal s’adattava ad atteggiamenti tanto bacchettoni  , quel ragazzo desiderava vivere intensamente la sua vita e, come spesso accade, la perse non appena cominciò ad assaporarne il gusto .  

Anche nello studio s’applicò poco e malvolentieri nonostante le promesse di “voler ricominciare gli studi… Bianca me lo ha fatto promettere davanti alla Madonna” confidate  ai suoi cari durante la breve e folgorante vita di trincea in terra di Grecia.  Forse quel desiderio di tornare sui libri “…per guadagnarmi quel posto che mi spetta per la mia intelligenza…”  ne nascondeva uno più recondito ,  quello di tornare a casa ,  il Padreterno aveva tuttavia per lui altri disegni e la morte  se lo portò via prima che potesse dare il via a qualsiasi nuovo progetto.

Bianca  - la sua fidanzata - era senza dubbio -  lo si legge chiaramente tra le righe delle sue lettere  – una ragazzina estremamente sensibile, stregata  dalla forte personalità di Piero e drammaticamente innamorata dell’intrepido  sergente .

 Piero l’aveva conosciuta in vacanza a Sestri Levante e di fronte all’immagine della Madrina – la Madonna – le aveva giurato  amore eterno , la relazione tra i due tuttavia fu fortemente osteggiata dalla famiglia di lei , il ragazzo le scriveva infatti all’indirizzo di un’amica.

L’indole tirannica  di mamma Anna Maria e la scarsa adattabilità a vivere un’esistenza  mediocre spinsero il giovanotto verso la vita di caserma assai più della sua fede nella causa fascista , un soldato coraggioso,  persuaso dall’incoscienza dell’età che il vigore fisico potesse preservarlo dal piombo nemico,   disposto a fare il suo dovere fino in fondo, questo sì, eppure  l’ideale degli immancabili destini d’Italia trapela più dalle lettere dei suoi congiunti che dalle sue.

Fece parte, come Walter e William, prima come Balilla poi come Giovane Fascista della legione marinara “Caio Duilio” negli anni che vanno dal 1930 al 1938.

Nel marzo del 1939, a soli diciassette anni, si arruolò volontario e partecipò ad un corso di allievi sottufficiali cinematografisti presso la scuola di Bolzano.

Dopo un avvio incerto , nelle lettere di quel periodo si cela infatti una sorta di pentimento per aver lasciato la famiglia, s’appassionò alla vita militare e nel settembre di quello stesso anno  conseguì la nomina a sergente. Nel maggio del 1940 a sua domanda fu inviato in Albania.

Dichiarata la guerra chiese ripetutamente di essere inviato sul fronte occidentale e successivamente in Africa settentrionale. Non essendo stato accontentato interessò vivamente i suoi superiori perché, nell’eventualità, fosse aggregato ai primi reparti di truppa che dall’Albania potessero essere inviati in zona di guerra.

Verso la metà del 1940 fu richiamato in servizio al reparto fotografico del Comando, ma rifiutò di tornare in quanto le truppe erano già in movimento verso la frontiera greco albanese. Aggregato alla colonna “Solinas” fece parte dei primi reparti dei bersaglieri che attraversarono la frontiera.

Il 19 febbraio 1940 a Rataplana-Ponticates fu decorato di medaglia d’argento sul campo con la seguente motivazione :

 

                          “Sott’ufficiale pieno di entusiasmo e di grande ardimento, durante un aspro combattimento, accortosi che un ufficiale della propria Compagnia, ferito gravemente, era stato preso dal nemico, si lanciava per riprenderlo e, dopo un’epica lotta corpo a corpo riusciva a riportarlo nelle nostre linee. Si distinse più tardi in successivi combattimenti per bravura ed ardimento.

Esempio mirabile di attaccamento al dovere, di devozione al superiore e di sprezzo del pericolo”

-Zaraplana-Ponticantes 19 novembre 1940 XIX° -

 

Il Colonnello Solinas, che lo ebbe successivamente geniere fra i bersaglieri, combattente di prima linea alle sue dipendenze, si esprime sul suo comportamento in una lettera inviata all’ammiraglio Riccardi in data 19/7/1941 ricordandone l’indomita figura di soldato:

 

“...Ricordo perfettamente, e con vivissima affettuosa simpatia, la bella figura del Tiddi che era ai miei ordini - quasi sempre al mio fianco - durante le operazioni della “Colonna Solinas” operante in Val Vojssa prima e poi in Zaraplana-Ponticates-Valle Drino.

Pur appartenendo a reparto di altra arma lo consideravamo un bersagliere del V° ed Egli - fierissimo di ciò- durante la sua permanenza al Reggimento vestì da Bersagliere- con un elmetto piumato- combatté da Bersagliere fra i Bersaglieri, e certamente cadde da Bersagliere sfidando - come sempre - ogni offesa nemica.

Il Suo slancio ,il Suo entusiasmo, il Suo coraggio, erano divenuti addirittura leggendari nella Colonna, tanto che, per frenare un po’ l’impulso troppo generoso del suo animo eroico, ritenni opportuno ad un dato momento di tenerlo vicino a me, al comando della Colonna, per incarichi di fiducia.

Il 4 gennaio, però, egli dovette lasciare il reggimento perché richiamato al proprio reparto ( 3a Compagnia Artieri del 26° Raggruppamento Genio)che si trovava allora sulla strada Berat-Klisura e precisamente a 5 Km. da Klisura.

Molto a malincuore lo vidi partire dal mio Comando - sempre con l’elmetto piumato in testa - e lo abbracciai commosso , ringraziandolo di quanto aveva fatto. Ma io ritornerò sig. Colonnello, ritornerò a combattere col 5° appena incominceranno le operazioni, voglio tornare coi Bersaglieri!”.......sono le ultime parole con le quali Egli si accomiatò da me...”

 

Il 4 gennaio 1941 fu richiamato infatti al suo reparto del Genio ma lasciò molto a malincuore i bersaglieri.

L’8 gennaio 1941 a Klisura nell’azione di Kilismono cadeva mortalmente ferito alla testa e all’addome e il giorno successivo decedeva all’ospedale da campo.

Il comando del Reggimento proponeva la concessione di medaglia d’oro alla memoria, proposta confermata dal secondo parere gerarchico; il Comando Superiore delle forze dislocate in Grecia declassò invece la proposta trasmettendola al Ministero come proposta di medaglia d’argento e come tale nel gennaio 1943 fu confermata dalla Commissione per le ricompense militari con la seguente motivazione:

 

“Sott’ufficiale del genio, partecipava con i bersaglieri a vari combattimenti distinguendosi per ardimento e sprezzo del pericolo. In fase di ripiegamento, mentre si prodigava per mettere in salvo importanti materiali di un magazzino avanzato, veniva assalito da forze superiori. Benché ferito gravemente ,continuava l’impari lotta con bombe a mano, riuscendo a porre in fuga l’avversario. Spirava poco dopo all’ospedale “Klisura” (Fronte greco 9 gennaio 1941).

 

Occorre tenere presente che zio Piero aveva un’accentuata miopia e durante le operazioni restò privo di lenti  non accusò tuttavia mai l’evidente menomazione che questo fatto gli procurava, nel timore di essere rinviato nelle retrovie, almeno temporaneamente, per provvedersi di nuovi occhiali.

Cosa mai occorresse per meritare una medaglia d’oro resta rintanato nelle teste vuote dei componenti quell’ “alto” comando.

Lungo e penoso fu il tentativo dei familiari per far sì che la medaglia d’argento fosse riportata all’originaria proposta di medaglia d’oro fatta dal Corpo proponente, ma fu tutto vano.

Qualche anno più tardi, anche quell’onorificenza , custodita nella cappella di famiglia del Verano insieme ai  resti mortali di Pietro ,  sarà sottratta nottetempo da qualche pezzo di merda.

L’unica eredità che mi lascerà  zio Piero   - a sua volta avuta in dote dal padre Caio -  sarà quindi la forte miopia che dall’età di due anni mi è fedele e poco cara compagna,  ma questa è un’altra storia.